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Dialoghi e pensieri sotto le piante

​Quando venimmo ad abitare nella casa di nonno Yerwant, finalmente liberata di alcuni fastidiosi personaggi che stazionavano là da quasi trent’anni, Paolo e io – desolati per la quantità di restauri che ci aspettava – nel pomeriggio scendemmo in cortile, per sederci sulla mitica panchina del nonno davanti al pozzo e riflettere un poco con calma. Ma anche il cortile ci apparve desolato e spoglio. Le piccole serre oblique addossate alla casa erano vuote, molte con i vetri rotti o crepati; le rose rampicanti sull’arco che portava in cantina sembravano vivacchiare a stento; nelle quattro aiuole intorno al pozzo c’erano solo alcuni stenti ciuffi d’erba; e intorno, fino alla casa moderna che chiudeva in fondo il cortile, si vedeva solo ghiaino e tracce di pneumatici.
Ci guardammo con tristezza. Io mi ricordai di quando il nonno era vivo: c’era allora l’arioso portico della scuderia – oltre il quale si scorgeva il giardino retrostante – col grande orologio ovale che scandiva le ore; là era sempre fresco, e il vento soffiava attraverso i vestiti, mentre i cespugli delle rose gialle spiccavano sulla fila scura dei cipressi. Quei cipressi erano i miei rifugi. Pensavo che fossero alberi-amici, molto protettivi e silenziosi, ai quali si potevano confidare i segreti senza che ne parlassero poi con tutti, come faceva mamma Vittoria con le sue cugine. Non credevo che i cipressi avessero molti amici fra gli altri alberi; sorgevano a una certa distanza l’uno dall’altro, erano alti, solitari e orgogliosi, custodivano il viale e non era mica facile arrampicarvisi sopra. Ci guardavano dall’alto delle loro punte sottili; i loro rami erano rivolti all’insù, e solo le radici toccavano la terra.
Ma adesso la scuderia era stata abbattuta, una casa nuova era sorta al suo posto, squadrata e ostile ai miei occhi, con piccole finestre su un muro diritto che aveva del tutto oscurato il giardino al di là. Allora mi venne un’idea: ma poi guardai Paolo negli occhi e mi vidi riflessa in lui con la stessa idea in mente, un pensiero gioioso: facciamo noi un piccolo giardino intorno al pozzo; mettiamoci una bella siepe intorno e poi al confine piantiamo alberi – alberi grandi, alberi veri.
«Un acero», disse lui; «e un ginkgo», dissi io. Poi ci accorgemmo che dietro, in uno scampolo d’erba vicino al confine con la casa vicina, era cresciuto da solo un altro alberello, che Paolo (molto più esperto di me) identificò subito come un bagolaro. «E questo sarà il terzo – aggiunse –, verrà su un altro albero grande». Fu infatti così. Passarono gli anni, le primavere si aggiunsero alle primavere, e i nostri alberi crebbero, finché un giorno ci accorgemmo che erano diventati creature maestose, con una spiccata personalità. Insieme proteggevano il piccolo giardino che fiorì intorno al pozzo antico, sul quale impavida rinasce ogni anno la profumatissima rosa scarlatta. Le roselline rampicanti sono tornate a essere robuste e piene di fiori, gli ireos svettano, gli oleandri sul confine con la casa vicina scoppiano di salute in rosa e bianco.
E io continuo a parlare con i miei alberi-amici: dalla terrazza, dove è più facile conversare, o ammirandoli dal basso, nell’ombra che quieta mi avvolge. Paolo se n’è andato, con un sereno addio, ma coi nostri alberi noi ancora parliamo