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Crivelli e l’umano dolore di Maria

​È una tempera su tela, la Madonna di Carlo Crivelli nota come Madonna di Macerata. La scoperta, dovuta al recente restauro, suona come una rivelazione e apre nuove prospettive circa l’attività dell’artista. Di Crivelli, infatti, si conoscono principalmente tempere su tavola e questa, come altri suoi dipinti su tela, era erroneamente ritenuta un riporto successivo dalla tavola alla tela, appunto.
L’opera, conservata nel Palazzo Buonaccorsi a Macerata, è firmata dall’autore e reca la data del 1470. Una data importante perché segna il passaggio di Crivelli da Venezia a Padova, città dove si affermò la pittura su tela, alle Marche: qui la sua presenza è attestata fin dal 1469. La fama e la bravura gli ottennero numerose committenze, nonostante avesse un carattere turbolento: l’artista, infatti, lasciò Venezia a causa di una condanna per concubinato e, proprio tra il 1468 e il 1469, ad Ascoli entrò in conflitto con un cittadino per motivi amministrativi.
Se le traversie hanno segnato la sua vita, Carlo Crivelli realizzò comunque opere colme di eleganza e serenità, le quali tradiscono però una vena di tristezza. Come possiamo vedere nella Madonna di Macerata, ma anche nella Santa Maddalena (1476), oggi conservata ad Amsterdam, commissionata al pittore dal principe Giovanni di Carpegna, la cui madre, Cristina, era di origine ascolana. In queste e altre opere si legge il profondo desiderio di raggiungere, pur soffrendo le contraddizioni della vita e del proprio spirito, l’elegante bellezza di un animo pacificato.
Nella Madonna di Macerata, la cui iconografia è tipica della Vergine della Tenerezza, Gesù bambino è colto in un dialogo di sguardi con la Madre. Nel gesto, pieno di tenerezza appunto, di avvinghiarsi al collo materno, lascia presagire la consapevolezza della sorte che lo attende. Maria, dal canto suo, ha distolto lo sguardo dal Figlio per rivolgerlo a noi, quasi implorandoci di custodire quel bene prezioso che, carne della sua carne (e perciò stesso carne della nostra carne), è anche vero Figlio di Dio, seconda persona divina del Mistero trinitario.
Tipico, in tali iconografie, è il silenzioso linguaggio dei gesti: se da un lato il divino Infante cerca rifugio sotto il manto di Maria, dall’altro, con la postura della gamba destra, sembra manifestare il desiderio di scendere da quel luogo sicuro per compiere la volontà del Padre. Egli sa più di noi d’esser nato per morire, d’essere venuto per attuare il disegno di salvezza salendo sul patibolo della croce.
A una tale riflessione spinge lo sguardo della Madonna. Il volto sereno, che riflette la contemplazione continua di quel Figlio, è abitato da occhi dolenti, i quali ci catturano entro il vortice dei suoi pensieri. Maria teme di consegnare nelle nostre mani quel Figlio tanto grande e, insieme, tanto vulnerabile. E se da par suo il piccolo Gesù fissa lo sguardo nella Madre, trovandovi riposo, e sta, con la gamba destra, saldamente ancorato a quell’abbraccio, per contro, con l’altra gamba manifesta l’urgenza dell’offerta totale di sé cui è chiamato.
I disegni del broccato del manto di Maria fanno da contrappunto a tali significati simbolici: la stella a otto punte, nota anche come stella delle beatitudini, è la stella mariana per eccellenza. Essa rimanda alla stella seguita dai Magi i quali giunsero a contemplare il Bambino e la Madre. L’altro disegno, già presente nelle creazioni del Crivelli, raffigura la pigna, simbolo di quell’illuminazione spirituale che non toglie né la dimensione umana che ricerca protezione, nè l’urgenza della missione del Verbo, ma le convoglia entrambe dentro il mistero di un “sì” senza riserve che accomuna Madre e Figlio e a cui il fedele è chiamato ad aderire.