Cappuccini a Sion, dialogo nuovo
Mario Botta
Nel bel mezzo della Svizzera, nel Canton Vallese, la città di Sion è circondata da pendii modellati da terrazzamenti secolari in pietra coltivati a vigneti.
Ai piedi del monte sul quale svetta il castello che sovrasta il tessuto storico della città, lungo la strada intitolata a san Francesco, emerge, di fronte al cimitero, un insieme edilizio di importanti dimensioni, a prima vista non facilmente decifrabile per la presenza di differenti linguaggi architettonici. Si tratta del convento dei frati cappuccini, il cui primitivo insediamento del XVI secolo ha registrato una lunga serie di stratificazioni.
L’intervento architettonico più importante, che ha conferito l’attuale configurazione, è stato realizzato negli anni Sessanta del secolo scorso per mano e per mente dell’architetto Mirco Ravanne (1928-1991), originario di Venezia, che dopo gli studi a Firenze e alcuni soggiorni a Parigi e dintorni, si trasferì con la famiglia a Sion, dove ha praticato con intensa passione il proprio mestiere. L’avventura professionale di Ravanne ha trovato nell’insieme ecclesiale del convento una ricca occasione di sperimentazione.
In questa sede mi limito a segnalare la realizzazione della cappella. Un’opera architettonica sorprendente per il serrato confronto che stabilisce tra passato e presente. Maestria e qualità architettonica si fondono in un linguaggio moderno che trova inattese declinazioni all’interno di un sapere artigiano, ancora presente in un contesto socioculturale ormai proiettato verso il mercato globale. Per questo la lezione architettonica risuona come un’azione meritoria di resistenza.
Sul “Corriere della Sera” del 28 dicembre 1969, il critico Mario Perazzi, con una recensione intitolata Gli astrattisti entrano in convento, annota come al di là della bravura dell’architetto – «immagini il lettore una felice sintesi fra i linguaggi di Le Corbusier e quelli di Carlo Scarpa» – l’intervento architettonico diviene un modo per coinvolgere artisti come Alberto Burri (con un’opera importante per il coro), Antoni Tàpies (per le decorazioni della sagrestia) e Kengiro Azuma (per le acquasantiere), oltre a restauratori, orafi e artigiani che hanno anche la possibilità di apprezzare il recupero di un affresco di Gino Severini. Ravanne, insomma, si misura con il meglio della cultura di quel tempo.
Nel suo lavoro combina il rigore del linguaggio neoplastico (De Stijl) con la fluidità degli spazi della cultura organica. Nell’organizzazione dei suoi spazi non esistono forme concluse in se stesse, ma un continuo rinvio a una realtà “altra” che coinvolge il fruitore. Nella cappella di Sion, le forme evocate dal passato diventano componenti forti del nostro presente. Il felice dialogo stabilito tra il linguaggio moderno e le preesistenze ricche di memoria permette inoltre di cogliere la sensibilità e le inquietudini dell’autore.
Una nuova cappella voluta coraggiosamente dai cappuccini in un contesto territoriale prevalentemente orientato verso la chiusura e la conservazione; un segnale di una riconosciuta legittimità e considerazione nei confronti dell’architettura contemporanea.