Camminare è un atto di fede
Viaggiare. Homo viator, “uomo camminante”. Il viaggio è una delle metafore più consuete, nella storia del genere umano, per indicare una quantità di azioni e di condizioni profondamente connesse con il vivere stesso. Anche la vita, in quanto tale, è sovente una proverbiale metafora del viaggio.
Viaggiare è necessario. E, nel viaggiare, diviene spontaneo ambire a una meta sia quando si parte, sia quando si torna: anzi, in questo secondo caso la voglia di raggiungere la meta che rappresenta il punto dal quale si era partiti può divenire lancinante: la parola italiana “nostalgia” ha nel suo etimo il termine greco nòstos, “ritorno”.
Nella fenomenologia di tutti i culti religiosi è in qualche modo nota una dimensione analoga, affine o paragonabile a quella che i latini chiamavano peregrinatio: il viaggio alla ricerca di una meta giunti alla quale si entri in qualche modo in contatto con il Sacro e nella quale ci si possa stabilire fino alla morte o dalla quale si possa tornare portando a chi è restato a casa una testimonianza dell’obiettivo raggiunto.
Possiamo dire che le religioni si dividono ordinariamente in due grandi categorie. Da una parte quelle a struttura mitica e a carattere immanente, dove cioè il Divino è presente nella natura o nel cosmo. Dall’altra quelle a struttura storica e a carattere trascendente, dove il Divino sta al di sopra della natura e del cosmo, ma irrompe nella storia. Le prime sono quelle che noi definiamo solitamente “religioni naturali”; alle seconde, le “religioni rivelate”, appartengono propriamente solo le tre grandi religioni di ceppo abramitico.
Il pellegrino delle “religioni naturali” si mette in viaggio per raggiungere un luogo nel quale il Sacro sia in qualche modo raggiungibile e attingibile, e dal contatto con il quale si possa assorbire la sua energia: una fonte, una montagna, un vulcano, una grotta, un oggetto, un monumento o manufatto di speciale valore, qualcosa al quale appunto si conferisce un valore o una forza sacrali: ad esempio i bethelim, le “pietre nere” nelle antiche religioni semitiche; oppure la pietra a struttura ogivale di Delfi, l’omphalos, inteso come centro cosmico irradiante energia.
Il pellegrino delle “religioni rivelate” procede invece verso una meta che costituisce la testimonianza storica del contatto con il Divino e che è quindi “santificante”: gli oggetti in qualche modo pertinenti a tale testimonianza sono quelli che i greci definivano leipsana e i latini pignora, le “reliquie”, che con la loro stessa esistenza costituiscono una prova del patto che in un certo luogo e in un certo tempo è stato stipulato tra Dio e l’uomo. Dal momento che si tratta appunto di una dimensione abramitica, la sostanza di quel patto è presente nelle Sacre Scritture che ne garantiscono la veridicità: per gli ebrei il monte Moriah, sul quale secondo la tradizione Dio aveva prescritto ad Abramo d’immolargli in sacrificio il figlio Isacco, e sulla cima del quale Salomone fece erigere il Tempio di Gerusalemme; per i cristiani il complesso dei Luoghi Santi identificati in età costantiniana, sempre a Gerusalemme, come la tomba di Gesù e le adiacenti alture del Calvario e la cisterna della Vera Croce; per i musulmani la Santa Kaaba della Mecca.
Tali luoghi furono e restano ancor oggi mete sacrali di un pellegrinaggio che i fedeli delle tre religioni sorelle ritengono, sia pure in diverso modo e con differente perentorietà, importante compiere: la aliah gli ebrei, la peregrinatio i cristiani, lo hajj i musulmani. Naturalmente, vi sono anche per ognuna delle tre fedi altre mete di pellegrinaggio, spesso secondarie ma non di rado molto importanti.
I primi cristiani, usciti dall’ambiente ebraico, mantennero amore e rispetto per Gerusalemme: ma fino dal I secolo, con gli apostoli Pietro e Paolo, elessero a loro nuova città santa, accanto a quella di Salomone e di Gesù, la Città Eterna. È dunque alla sacralità di Roma che bisogna guardare, specie alla vigilia di un Anno Santo, di un Giubileo. Alla domanda del grande perdono è profondamente connessa la Via Francigena.