Bernini e Borromini i duellanti della Roma barocca
Chiese e piazze, colonnati e fontane, monumenti e statue: dobbiamo a Bernini e Borromini parte della Roma che ancor oggi ci affascina. Sono loro i registi capaci di concretizzare quella sensibilità che nel XVII secolo trasformò il volto della città. Due geniali interpreti della duplice anima del barocco romano, trionfante o tormentata. Furono architetti, scultori, scenografi, costruttori. Al servizio dei papi e delle loro famiglie lavorarono nell’Urbe quando le cerimonie sacre celebravano quell’amore alla vita che la dottrina dei teologi faticava a disciplinare. Parliamo di Gian Lorenzo Bernini e di Francesco Borromini, uniti e divisi dall’arte: il primo nato a Napoli nel 1598 e vissuto sempre a Roma dove morì nel 1680; il secondo nato a Bissone, sul lago di Lugano, nel 1599, e a vent’anni approdato nell’Urbe dove morì nel 1667 gettandosi contro una spada. I due s’incontrarono nel 1629. Bernini godeva già di importanti commissioni, dopo aver esordito in occasione dell’Anno Santo 1625: quello della “meraviglia” offerta ai romei con la nuova basilica di San Pietro – ultimata dall’architetto Maderno, dopo i lavori del Bramante e di Michelangelo – ma pure di altre opere volute da Urbano VIII e segnate dalle tre api stemma di famiglia. Il Borromini invece, tecnico nonché visionario, tutto rigore e geometrie, era il primo assistente del Maderno nel cantiere sempre aperto di San Pietro. I due si trovano a lavorare insieme sia lì, per il baldacchino del quale Borromini supervisionò la copertura, sia a Palazzo Barberini con la sua splendida scala elicoidale. Bernini, succeduto al Maderno dopo la morte, continuò ad avvalersi del Borromini sfruttandolo senza essergli riconoscente, sino alla rottura dei loro rapporti nel 1633: il ticinese, come scrisse Bernardo Castelli, «deluso e deriso» davanti a «solamente bone parole e tanta promisione», si staccò dal Bernini rivendicando la paternità del suo lavoro: «Non mi dispiace che abbia auto li denari, ma mi dispiace che gode l’onor delle mie fatiche». Così ecco il Borromini impegnato nelle sue prime attività autonome: architetto nella chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane con l’annesso convento e Sant’Ivo alla Sapienza, dove esprimerà tutta la sua personalità artistica. Poi, mentre il rivale Bernini si dedicava a Urbano VIII con la Fontana del Tritone, ecco per lui anche l’importante commissione per l’Oratorio dei Filippini, a fianco di Santa Maria in Vallicella.
Il successo per Borromini giunse solo dopo la morte di Urbano VIII, con Innocenzo X Pamphili deciso a smantellare il potere degli artisti protetti dai Barberini. E così Borromini è incaricato nel 1646 di restaurare San Giovanni in Laterano per il Giubileo del 1650 e più tardi di lavorare alla chiesa di Sant’Agnese in Agone. Con l’elezione di Alessandro VII il mecenatismo dei Chigi tornò a favorire il Bernini a scapito del Borromini, che lavora alla facciata di San Carlo alle Quattro Fontane: l’ultimo lavoro. Ed ecco il Bernini in parecchie realizzazioni, tra le quali spicca la cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria con la Transverberazione di santa Teresa, senza scordare l’ultimo intervento giubilare nel 1675, anno in cui terminò in San Pietro l’altare della cappella del Santissimo Sacramento, dominato dal ciborio rivestito di lapislazzuli: motivo d’incanto per generazioni di pellegrini.
di Marco Roncalli