Azariah, il profeta sul taxi
Antonia Arslan
Per arrivare all’università dove ero attesa per partecipare a un seminario, dopo aver preso il treno alla Grand Central Station di New York, dovevamo scendere alla stazione di White Plains; e da lì serviva un taxi. Era un giorno buio di novembre, piovigginava, e il mio umore era decisamente altrettanto buio. Mi sentivo stanca, con gli occhi pesti.
La regola ovviamente era che si doveva salire sul primo taxi in attesa. Ma c’era un’eccezione, che io ricordavo molto bene dall’anno prima: dato che i tassisti erano liberi di caricare fino a tre persone per differenti destinazioni, per ottimizzare il servizio e il loro guadagno, tu – cliente – eri libero di non voler viaggiare con altri, e quindi di scegliere la vettura successiva. Fu quello che feci guardando la fila, dopo un rapido gesto d’intesa con l’amica che mi accompagnava: nel primo taxi, guidato da un autista nuovo, sconosciuto, c’era già una persona, mentre dal secondo, sbirciato con una veloce occhiata, si spalancava l’ampio sorriso del mio amico Azariah dal biblico e profetico nome.
Appena a bordo, dopo un momento il sorriso si spense sul faccione nero e bonario di Azariah, sostituito da un cipiglio preoccupato. Mettendo in moto con un abile tocco, mi domandò subito se stavo male – e perché. Poi, senza attendere risposta, proseguì: «Tutti oggi sembrano ansiosi e preoccupati, e poi si comportano come persone cattive. E se gli altri reagiscono nello stesso modo, diventano furiosi e si domandano perché. Hanno dimenticato il Grande Amico, e sono come bambini perduti in un mondo buio e nero». Guardai dal finestrino. Il mondo sembrava davvero buio e nero, là fuori; la pioggia sporca rigava il vetro, la gente intabarrata tirava diritto. Mi sentii un peso immenso sul cuore, come una desolazione senza speranza che premeva da ogni parte. Tutto mi sembrava inutile e lontano, e mi domandai perché doveva importarmi di qualcosa, men che meno di quell’assurdo seminario in quell’inutile università dove lui mi stava portando.
Così gli risposi di malavoglia, quasi scontenta che fosse proprio lui, l’omone sorridente e gentile che citava i passi della Bibbia con un amore devoto per ogni singola parola sacra, col quale l’anno prima avevamo fatto tante amabili chiacchierate. Non volevo sembrargli scortese, ma non riuscii a nascondere il cattivo umore. Lui continuò a guidare tranquillo, come non se ne fosse accorto, ma quando arrivammo, invece di fermarsi davanti all’edificio dove si teneva il seminario, svoltò un po’ più in là, fermandosi sotto un’enorme quercia. Poi si voltò verso di me e disse pacatamente: «Puoi arrivare in ritardo al tuo appuntamento, ma non a quello con Cristo. Tu in questo momento hai solo bisogno di lui. E di un buon libro di preghiera. Ti do uno dei miei», e mi porse un modesto libretto molto sgualcito, stampato in semplicità. Lo presi in mano e mi si aprì il cuore: c’erano preghiere e riflessioni diverse per ogni giorno dell’anno, e ogni giorno era dedicato a una diversa chiesa africana, o asiatica. Molte frasi erano sottolineate, molte pagine avevano orecchie: era davvero un libro vissuto, un dono speciale.
Improvvisamente mi si gonfiarono gli occhi di lacrime di pura gioia, la gioia e il calore dell’amicizia condivisa; e lui mi prese le mani e fece un nuovo grande, contagioso sorriso.