Antonio Ligabue, libero scultore
Antonio Ligabue non era matto! Aveva una sola via di fuga e pace interiore: l’arte. Solo quando si avventava letteralmente sui colori era felice e mimava il ruggito terrificante delle bestie feroci, e quando faceva il verso agli altri animali e dava senso alle sue opere. Rintocchi di campana e grida su nell’anima e subito arrivava la collocazione giusta dei movimenti degli animali e una ferocia di contrasti pari a quelle bestie che intendeva non raffigurare, ma farle sbalzare, vivissime, fuori dal quadro. Voleva carpire l’essenza e la misteriosa potenza segreta d’ogni animale. Le bestie e le persone le teneva alla pastura scoscesa e ripidissima dentro di sé e le accoglieva con implacabile energia creativa. Quel suo tirarle fuori dal pascolo interiore con violenza era come tirarle fuori da facili convenzioni e apparenze. La realtà gli provocava un esaltato furore.
Ligabue era matto, guai a chi non lo è. Non calibrava bene tutte le convenzioni sociali perché i suoi istinti erano orchestrati dalla crudezza del suo dolore patito e dalle intime inesprimibili gioie che lo esaltavano fino al delirio e alle sconfitte che lo precipitavano fino all’autoflagellazione. Così faceva il pittore Domenico Zampieri, detto il Domenichino (1581-1641), che urlava a squarciagola nel suo studio, perché orribili briganti lo scannavano. Accorrevano allora, trafelati e impauriti, i suoi discepoli per liberarlo da morte certa e invece si prendevano contumelie e offese per averlo disturbato da una così spettacolare scena teatrale di cui lui era regista e vittima, oltraggiato fino al sangue nella simulazione perfetta. È questa l’arte della mimesi che identifica l’autore con la sua opera, fatta di sentimenti reali calati nella pittura con la baldanza dei suoi soggetti, tanto che il pittore fingeva di assumere in sé una gragnòla di frecce che oltrepassano la carne e l’anima. Se non ci fosse questo teatro interiore che rispecchia i gesti, le urla, le concitate mosse di un attore dilettante, non ci sarebbe il quadro o la scultura. Soltanto l’assoluta dedizione dell’autore alla sua visione genera la sua opera che è sempre una visione personale, altrimenti l’opera sarebbe fatta con inerte materia e negletta d’ingegno e goffa espressione d’un logaritmo. Cosa tra le altre cose inutili.
Ligabue, dunque, impazzisce per tutti noi; è ai margini della società, un reietto che sprofonda non nella voragine collettiva, ma cerca la sua purificazione nella solitudine del suo arroventato romitorio, nei simboli e nell’energia vitale che lo sorregge. Egli dà vita e senso alla materia con arte e poesia, altrimenti sarebbe un imbalsamatore di gesti campati in aria. Ligabue è un nativo, cioè una persona a cui non si può aggiungere o dire niente che lo impressiona. Conosce quel tanto che gli basta per far deflagrare la santabarbara della sua immaginazione. Porta tutto con sé come il filosofo che ebbe a naufragare: omnia mea mecum porto. Tutto ciò che è mio lo porto con me. Ma nella scultura rivela particolarmente il suo segreto. In quest’arte mimetica e tattile per eccellenza rivela il suo carattere, la sua potenza ancestrale. Cosa è infatti questa sequenza ben ordinata di simboli e di realtà dell’anima? Meraviglie di una prodigiosa tecnica espressiva mentale e manuale, posseduta da un magnetismo, da un potente sogno che si concretizza in modo impressionante, meraviglioso nelle sembianze di un animale, di un’immagine tratta dalla realtà.
Si osservi come le sue potenti sculture siano logiche, ben strutturate e rammentino alla lontana la sapienza di Rodin, ma piuttosto con l’ingenuità e la passione d’un fanciullo. Tutto vibra in questi bronzi, fusi e modellati con ogni perfezione, con una superiore visione anatomica, uno slancio dinamico verso un orizzonte spirituale compiuto. Altro che matto! Questo è un grande maestro del Novecento, quasi del tutto sconosciuto come scultore. È prevalsa infatti la triste narrazione dell’infelice che alberga nella pazzia e non di questo sapiente maestro, conoscitore raffinato delle ossa e dei nervi e delle attitudini d’ogni animale e d’ogni fantasma del cuore e della mente in virtù della sua potente visione spirituale.
Bisogna osservarle a fino queste sculture che destano in me tanta sconvolgente sorpresa. Il primo pensiero che mi è venuto spontaneo è che Ligabue non poteva avere una conoscenza così vasta delle attitudini e del carattere degli animali. Mi sbagliavo. Un professore di zoologia potrebbe farci sopra un’ampia lezione universitaria, tant’è la qualità descrittiva di ogni osso, di ogni muscolo. Il leone morde e fa tremare l’aria da quanto è leone, genera spavento. Vediamo la guizzante agilità e come si erge fierissimo nell’aria. Si osservi il toro poderoso, il tacchino che si gonfia e fa la ruota, perfetta ed elegante sintesi di tutto il bestiario di Ligabue. Ma come si fa a tralasciare il cavallo stracco di lavoro pesante, impastato di nebbia e di sole?
Ligabue biascicava la creta e poi la compattava forte. La scolpiva dal blocco di argilla, come fosse marmo di Carrara, una tecnica mai vista prima di allora. Non aggiungeva la creta ma tagliava il superfluo come faceva Michelangelo. La pacata e rapidissima modellazione di queste sculture, il vigore scattante d’ogni muscolo sono animati da stringente logica. Ligabue è davvero capace di una prodigiosa bellezza che si muove libera e armoniosa, mentre va incontro alla regalità del Creatore.