Andrea Mantegna e la notte della storia
Maria Gloria Riva
L’arte ci regala il fotogramma dei Magi in mille pose: Magi in cammino, Magi in corsa, Magi prostrati, Magi che scrutano il cielo: lo stesso Andrea Mantegna, nel Trittico conservato agli Uffizi (1464), aveva ritratto i Magi in un lungo corteo diretto alla casa di Maria. L’Adorazione dei Magi del Getty Museum, realizzata tra il 1497 e il 1500, rimanda agli antichi monumenti funebri romani, ed era destinata alla devozione privata. In questa tavola l’artista, ormai anziano e al termine della sua lunga carriera, scoraggiato per i tanti cambiamenti di cui fu spettatore, restringe l’obiettivo fin dentro la casa di Maria. Scompare tutto: il cielo, la stella, persino l’interno della casa ci è vietato; il Mantegna ci conduce a indagare dentro l’interiorità dei tre saggi, che «entrati nella casa videro il Bambino e sua Madre» (Mt 2,11). I tre si stagliano sul fondo nero, come se emergessero dalla storia. Il campo è ridottissimo, volti e mezzi busti sono raccolti nello spazio esiguo della tavola: il Bimbo e Maria in primo piano; sullo sfondo a sinistra Giuseppe, il più nascosto; a destra il gruppo dei tre Magi. Il taglio ravvicinato spinge a una riflessione più intensa sul percorso interiore dei tre re.
Gasparre, in primo piano, reca un vasetto di rara porcellana cinese; dietro scorgiamo Melchiorre, il più giovane, con un incensiere di manifattura turca; infine, il moro Baldassarre porta una coppa, arricchita di agata preziosa, contenente la mirra. Maria indossa vesti sontuose: si può ipotizzare che siano un omaggio a colei che forse è stata la committente dell’opera, Isabella d’Este; anche gli oggetti che recano i Magi somigliano a quelli conservati in apposite teche nello studiolo di Isabella.
Mantegna fissa l’attimo in cui i Magi, entrati nella casa, vedono il Bambino e sua madre. E invero Maria è tutt’uno col figlio: lo guarda pensosa, si china con lui verso i misteriosi ospiti presentendo quasi la sua sorte. Una sorte sorprendentemente simboleggiata dai doni: l’oro della regalità, la mirra dell’umanità e della passione, l’incenso della divinità. Dei tre doni, uno soltanto è scoperchiato, quello del re Gasparre, che offre l’oro della sua adorazione. Egli, infatti, è il solo ad essere inginocchiato.
Cristo benedicente è bellissimo nelle sue fattezze tenere da neonato e tuttavia veste i panni di un rabbi. Avvolto nel peplo, con il capo coperto, egli è la Sapienza del Padre che siede in grembo alla Madre. Il divino Bambino schiude la sua bocca, sembra parlare, parla sì, ex cathedra, ma esprime quel magistero colmo di fraterna sollecitudine per ogni uomo. Gli sguardi degli altri due Magi sembrano oltrepassare il Cristo, la Vergine Madre e vedere lontano, come se guardassero alla storia che, proprio in quegli anni, l’Europa stava attraversando tra le pagine gloriose, ma difficili, della scoperta delle Americhe e il dramma delle invasioni ottomane. Quegli sguardi persi lontano interpellano, forse, anche la nostra tormentata e confusa storia, entro la quale si è visto che la sola unità possibile tra i popoli è quella della preghiera.
Serrato nell’angolo sinistro dell’opera, Giuseppe guarda i Magi. Il padre putativo di Gesù spicca per l’abito rosso da notabile. Lo stesso rosso che indossa Melchiorre, il cui nome significa “re di Luce”. Giuseppe conferma la regale divinità del Bambino: grazie a lui Cristo è vero figlio di Davide, il rosso del suo abito profetizza il suo sacrificio per amore.
Così in pochi tratti, nello spazio ridottissimo di una tavola, l’anziano Mantegna ci lascia quasi un testamento spirituale: solo l’amore salva e la vera regalità non è quella del fasto, pur pregiato, degli ori di corte, ma quella dell’animo puro e disposto al sacrificio, come Cristo è venuto a insegnare.