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A Curtatone, dove il popolo della Vergine si racconta per l’eternità

​Il treno rallenta arrivando a Mantova, passando attraverso i laghi scintillanti. E la città si apre pian piano, come spostando un velo di bruma, in questa mattina di ottobre. Quante volte ci sono venuta, fin da bambina, da quando zia Elisa-la-Terribile, sorella maggiore di mia nonna Virginia, ci invitava per il suo compleanno al Grande Pranzo di Valeggio sul Mincio, dove abitava. Bisognava essere puntualissimi, i tortellini venivano serviti a mezzogiorno in punto, caldi caldi, e poi per i bambini c’era la vasca di zabaione, con tanti cucchiaini pronti in fila davanti.
Nel pomeriggio, tutti a Mantova, a girare per il centro col naso per aria: ma quelli che sempre mi colpivano erano proprio i laghi, che mi raccontavano parole antiche, storie di belle dame prigioniere o trionfanti, di cavalieri e di imprese gloriose. Erano placidi e insidiosi, e sotto l’acqua c’erano – mi pareva – mostri fatali che vivevano in oscure caverne.
Molte altre volte ci sono poi tornata da grande, nella città ducale, ho ammirato monumenti, visitato mostre, partecipato a festival, raccontato le mie storie, dormito in deliziose stanze che danno su cortili interni profumati di gelsomini. Ma in simili luoghi incantati sempre sorprese ti attendono: questa volta, un’amica saggia e gentile mi ha portato al santuario di Santa Maria delle Grazie, appena fuori città, nella frazione che si chiama appunto Grazie del comune di Curtatone (quello della famosa battaglia...).
È un posto davvero incredibile. Per terra, nell’ampio sagrato, si vedono ancora le tracce dei quadri disegnati coi gessetti colorati dai madonnari alla fiera di mezz’agosto, come lievi sinopie da cui i colori sono scomparsi. Ma è l’interno ad essere straordinario: fastoso e popolare insieme, conduce il visitatore in un viaggio attraverso i molti volti di un’umanità dolente, in attesa di un segno consolatore. Sui due lati della navata si stende la cosiddetta impalcata: una doppia loggia da cui si affaccia una processione di personaggi, che sono ex voto in forma di grandi statue di stoffa, legno e cartapesta, realistiche e vivacemente colorate, con un cartiglio in versi al di sotto che racconta la loro storia e la grazia ricevuta dalla Vergine. Col naso per aria, si passa dall’una all’altra leggendo i cartigli, versetti popolareschi espressivi e piacevoli, che riflettono una fede semplice ma accorta, che ha pesato su una misteriosa bilancia il bene e il male commesso, senza sconti. Sul rosso pompeiano delle colonne che dividono le statue si notano poi subito, capricciosamente disposti e come incollati sulla superficie, moltissimi ex voto più piccoli, di cera, raffiguranti parti del corpo umano, che con un effetto bizzarro moltiplicano in qualche modo il senso di una preghiera comune, di un percorso del fedele verso l’icona della Madonna che splende sul fondo.
Ci sono principi e pezzenti, soldati e povera gente, Carlo V e papa Pio II, e tutti sembrano pupi su cui la fantasia degli umili scultori si è fantasticamente sbizzarrita. Ma nell’ordine inferiore i cartigli raccontano succintamente come sono avvenuti gli interventi di Maria, la Grande Signora, e qui ci si ferma. È una voce corale che parla, la voce di un intero popolo muto che si rivolge con fiducia all’unica potenza da cui ha fiducia di venire ascoltato.
 
di Antonia Arslan