Via Appia. Una linea retta dentro la storia
La Via Appia è più di un’impresa ingegneristica o di una conquista: racconta un’idea di mondo. Oggi il suo percorso è un palinsesto di memoria e bellezza
Antonio Musarra
Non è soltanto una strada. È un solco profondo che attraversa la terra e il tempo. Una linea incisa nella storia d’Italia che, da oltre duemila anni, unisce Roma al Mezzogiorno, le origini della Repubblica alla cristianità delle catacombe, la durezza del basalto antico alla dolcezza delle rovine sommerse. La Via Appia, la più grandiosa tra le consolari, è, oggi, una sfida costante: conservarla, percorrerla, comprenderne il senso significa interrogare il nostro rapporto con il passato, accettarne la complessità, riconoscerne l’eredità viva. E, forse, lasciarci trasformare. Perché camminare sull’Appia è un esercizio di memoria e d’immaginazione: ogni sasso racconta, ogni cippo interpella.
«Appia teritur regina longarum Viarum», scriveva Stazio nel I secolo. La regina delle lunghe vie. La sua storia è nota: fu voluta da un censore repubblicano, Appio Claudio Cieco, che ne avviò i lavori nel 312 a.C. con lo scopo di collegare Roma a Capua, il cuore della Campania. In un tempo in cui la potenza dell’Urbe si misurava sulla capacità di proiettare forza militare e organizzazione amministrativa sul territorio, essa fu insieme arteria strategica e simbolo del dominio. Verso la metà del secolo successivo, il tragitto fu esteso sino a Maleventum, che proprio allora mutava nome in Beneventum; quindi, a Tarentum (Taranto); infine, verso il 190 a.C., al porto di Brundisium (Brindisi). Dal Tirreno all’Adriatico meridionale. Ciò che la rese immortale, a ogni modo, non fu solamente l’ardire tecnico – i ponti, i tracciati rettilinei, la regolarità delle pietre – ma la visione. Fu concepita come una linea retta: un asse che non si piegava alla topografia, dominandone gli ostacoli naturali, piegando colline e valli a una logica superiore di potere e ordine. Nel suo percorso, insomma, s’incarnava l’ideologia di un popolo. E ancora oggi, quel tracciato racconta più di una conquista: racconta un’idea di mondo.
Nel corso dei secoli, l’Appia ha visto passare eserciti, consoli, mercanti e schiavi. Divenne la strada delle vittorie ma anche delle tragedie. Nel 71 a.C., dopo la repressione della rivolta di Spartaco, Crasso fece crocifiggere lungo il suo tratto iniziale, tra Roma e Capua, circa seimila schiavi. Una macabra teoria di croci la mutò in ammonimento muto e crudele. Essa, tuttavia, fu anche la strada dell’incontro: da Brindisi salpavano le navi per la Grecia, la Siria, Alessandria d’Egitto. Era l’orizzonte aperto della Repubblica, il presagio di un mondo diverso. L’Impero se ne sarebbe appropriato, restaurandola e ampliandola. Attorno al 110, Traiano avrebbe fatto realizzare una diramazione che da Benevento giungeva a Brindisi attraversando l’Apulia.
Con l’affermarsi del cristianesimo, il suo volto mutò ulteriormente. Pellegrini e viandanti presero a percorrerla a piedi sino a raggiungere la città di Pietro e Paolo, sostando, spesso, fuori le mura, presso le catacombe: San Callisto, San Sebastiano, Domitilla. Luoghi di sepoltura – in attesa della risurrezione dei corpi – e di preghiera. Fu così, dunque, che il tragitto si trasmutò in asse di pellegrinaggio. Lungo la strada sorsero basiliche, mausolei, ospizi, monasteri. Il paesaggio della campagna romana cominciò a popolarsi di memoria e fede.
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