Luoghi dell' Infinito > Verrocchio, il maestro dei maestri

Verrocchio, il maestro dei maestri

Una mostra a Palazzo Strozzi a Firenze restituisce tutta la grandezze dell’artista e la centralità della sua bottega nel formare la Maniera Moderna

​Francesco Caglioti e Andrea De Marchi


La formazione di un grande artista è sempre ricca di interrogativi. Nel caso di Leonardo da Vinci la sua permanenza nella bottega del Verrocchio fin quasi ai suoi trent’anni, fino alla partenza per Milano, indica un rapporto particolarmente forte e coinvolgente, che fu fondamentale per entrambi gli artisti. Temperamenti se possibile antitetici, i due entrarono in una dialettica feconda, che li stimolò a mettersi costantemente in gioco e a superarsi di continuo. A unirli furono lo sperimentalismo e la tensione formale, per il maestro miranti a una perfezione armoniosa e concentrata, a una suprema acribia visiva, per l’allievo rivolti a indagini più inquiete, all’animazione irriposata dove ogni termine netto viene eluso e sforzato.
Che Verrocchio sia stato un grande scultore lo si sa da sempre, i manuali lo ripetono ancora oggi; lo scopo, l’ambizione della mostra in corso a Palazzo Strozzi a Firenze è di provare che Verrocchio è stato sommo come scultore, in particolare come maestro del metallo. Questo perché è riuscito a unire con abilità straordinaria il meglio della scultura del primo Quattrocento fiorentino, senza però guardare nostalgicamente verso il passato, ma costruendo su di esso il futuro. Sono due gli ascendenti che confluiscono nel cammino di Verrocchio: da una parte Donatello e dall’altra Desiderio da Settignano.
Da Desiderio viene il supremo magistero tecnico, che Verrocchio eguaglia o addirittura supera nel metallo. Tutto ciò gli vale la possibilità di esprimere la bellezza delle carni, la profondità dell’espressione psichica. Mentre da Donatello viene un alto senso architettonico dello spazio, che lo scultore è in grado di dominare, coinvolgendovi lo spettatore attraverso la rappresentazione di singole figure che però sono “molto attive”: fanno da sole una storia dalla quale si sprigiona il senso della vita che scorre perpetuamente. Lo spettatore quindi è attratto quasi come dalla pittura, se non più che dalla pittura, perché naturalmente le figure a tutto tondo danno il senso della carne e della presenza fisica, incombente e attraente.
La Dama dal mazzolino del Bargello è forse il ritratto femminile più famoso della scultura italiana del primo Rinascimento. È un’opera mitizzata, nella quale gli storici dell’arte hanno cercato anche di individuare il soggetto, che è sfuggente perché la dama – la giovane dama – rimane anonima. Qui, Verrocchio riesce mirabilmente a fondere i due principali filoni della sua formazione, di cui scrivevamo: quello dell’apprendistato con Desiderio da Settignano e quello del legame con Donatello. Da Desiderio deriva l’estrema sensibilità nel trattamento del marmo, che fa davvero palpitare la carne ed esalta la psiche del personaggio, catturata nel suo rapimento amoroso mentre pensa evidentemente a un amato e stringe al petto il mazzolino di fiori che ha ricevuto forse in dono da lui. Viceversa da Donatello Verrocchio mutua l’animazione della figura. Perché Donatello è il grande maestro che riesce a infondere in un’arte sommamente inerte come la scultura il senso della vita che scorre, che passa di continuo. E nella mezza figura della Dama del mazzolino si capisce – nonostante non si vedano le parti inferiori – la complessità del corpo umano, e il busto ci sembra quasi una figura intera.
[...]