Venzone, la rinascita del borgo più bello
Nel 1976 un sisma distrugge il Friuli. La sua gente si rialza e ricostruisce il patrimonio e se stessa. Il paese sul Tagliamento ne è un esempio straordinario
Roberto Copello
«A vegnarà ben il dì che il Friûl al si inacuarzarà di vei na storia, un passat, na tradision!». Verrà bene il giorno in cui il Friuli si accorgerà di avere una storia, un passato, una tradizione. Pier Paolo Pasolini aveva solo ventidue anni quando nel 1944 – mentre in Friuli comandavano i tedeschi – scrisse nella lingua della Casarsa materna questa famosa frase che suonava come un programma culturale, politico e sociale. Quel giorno alla fine arrivò, ma Pasolini non fece tempo a vederlo: era morto esattamente da sei mesi e quattro giorni quando, alle ore 21 e 12 secondi di giovedì 6 maggio 1976, una scossa di magnitudo 6.5 della scala Richter si abbatté sul Friuli da Udine in su, lasciando novecentonovanta morti, quarantacinquemila senza tetto, decine di migliaia di edifici distrutti o lesionati. Fu quello il “Dies Irae pal Friûl”, come recita il titolo della raccolta poetica in lingua friulana forse più diffusa di ogni tempo (la compose Alberto Picotti, partigiano, scrittore e ambasciatore itinerante dell’Ente Friuli nel Mondo). Ma fu quello anche il giorno in cui gli italiani scoprirono i friulani, e i friulani scoprirono se stessi. Gli italiani si avvidero di un popolo che – come fu detto – al secondo giorno già aveva smesso di piangere e s’era rimboccato le maniche. I friulani, per parte loro, presero coscienza di avere un patrimonio di cultura e di arte che, senza che lo sapessero, aveva plasmato la loro identità. E ancor più se ne resero conto quando altre potenti scosse, due l’11 settembre e due il 15, ancorché meno letali inflissero tuttavia danni terribili al patrimonio storico e artistico regionale. Per un attimo sembrò vacillare anche una roccia come l’arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, il presule veneto che aveva sposato la causa del friulano come lingua liturgica: «Il terremoto del 6 maggio ha demolito il Friuli; quello di settembre ha demolito i friulani. Il primo ha distrutto le case ma ha lasciato la speranza; il secondo sembra aver intaccato anche la speranza». Fu tuttavia lui, che per tutti è rimasto “il vescovo del terremoto”, a definire le priorità con una frase divenuta lo slogan della ricostruzione: «Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese».