Val d'Orcia, una terra riarsa baciata da Dio
Le colline e le anime della Val d’Orcia, segnate dalla sferza e dalla gloria del sole e trapuntate di testimonianze di un’arte caparbia e che conosce il soffrire
Massimo Lippi
Scrivo della Val d’Orcia a memoria, ebbro di quel ricordo vivo che non si consuma, quasi che l’avessi tenuta in collo la Val d’Orcia per tutta la mia vita. Desolato fiume secco sotto il martello battente dei giorni, sotto lo sbrano affamato del cielo. Rammento i suoi tesori racchiusi in quelle striature del pianto sulle crete, quei poggi là dove si scatena l’ira opaca d’un vulcano asciutto.
Opere dell’uomo e degli elementi si congiungono qui a cercare un po’ di requie, nel bruciore estivo, quando il gregge senza fiato fa matassa intorno intorno, a capofitto, per respirare almeno un lisco d’ombra come fosse l’ultima benedizione del Creato. In quelle sue magre proposte di terre scottate dal sole e battute dal vento gelido ritrovo tutto il tribolato cammino del tempo e delle genti che passarono da questi poggi all’eterno. Dove saranno quei burberi e docili pellegrini? Dove saranno quei ragazzini scalzi al primo tepore di primavera?
Le nostre anime scontente non vedono che morte là dove più alta era qui, prossima, la frescura dei pascoli in faccia al mondo. S’avventa ora in me questa mandria di ricordi alla pastura, come se invisibili ritornassero ad avvisarci di qualcosa d’imminente a cui noi non diamo retta manco morti. In questi gorghi di creta e di vento è sepolta la speranza che gloriosa esplode nel luccicore d’erbe, ma tante, come fossero venute dal cielo a foraggiare il mondo. Quelle piaghe del silenzio ora riascolto in questa novissima fioritura della speranza e del dolore che le genti ravvivano in me, distratte. Mi pare il lieve balenare di una sposa magrolina nel giorno candido delle sue nozze, bella, nei suoi timidi gesti di bambina.
Poi ripiglia il dominio del vero, tutto quello che noi possiamo percepire è qui davanti alla montagna dell’Amiata che s’impiglia ritrosa nei vapori candidi della sua febbre. Qui dove matura il giorno degli uomini si scopre d’incertezze la muraglia di San Quirico d’Orcia e non so bene dove cominci il sogno o la realtà, il ricordo e il ritrovamento di un calore familiare, tiepido, onesto.
Dove cominci la fragranza del paesaggio che sommessamente implora di lasciarlo nella sua pace, ora che indugia tutto solo. Radicofani, groppa secca che si staglia netta all’orizzonte, laggiù nello scosceso baratro del tempo, fra queste prossime lontananze. Rammento il suo pulsare nel mattino come un uomo invecchiato troppo presto. Lo ascolto in quel suo arcigno alitare sulla Val d’Orcia quando nei temporali vorticosi si fa così tanto brontolone.
Dal vento misto a pioggerellina immagino Primo Volpi, corridore ciclista, dominare con la potenza degli eroi queste lancinanti memorie. Rammento che raggiungevo quelle terre fresche nel vento rubando la bicicletta da corsa a mio fratello e vagavo lieto in quella stagione maggiore, nel cielo aperto dove il sole spacca le pietre, nel mezzo alla calura del giorno. Era una delle colonne d’Ercole da non oltrepassare mai. Quei luoghi aridi tanto abitati da invisibili schiere angeliche avevano però il muso del deserto: una fornace ardente di stoppie dorate, un silenzio che si mangiava a morsi. Pareva un castigo, invece si preparava a essere una benedizione.
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