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Una promenade di capolavori

Un'ideale passeggiata tra i musei e le testiomianza artistiche di Brescia e Bergamo

​Elena Pontiggia

Che cosa si può vedere a Bergamo e a Brescia, oltre - e non è poco - alle architetture, ai monumenti, alle piazze delle due città e, per così dire, alle città stesse? Muovendo dalla Leonessa d’Italia, potremmo iniziare da quel capolavoro che è la Vittoria alata, ritrovata casualmente nel 1826 in un anfratto del Capitolium. È una Victoria in clipeo scribens, cioè che incide sullo scudo di Marte il nome del vincitore, ed è un capolavoro non solo per l’armonia della sua posa, per la bellezza del volto e delle braccia, che sembrano suonare un’arpa, ma anche per l’insegnamento che ci impartisce. Nel­l’antichità la Vittoria non aveva armi: al massimo portava un elmo o uno scudo, reggeva senza usarlo il fulmine di Giove o il tridente di Nettuno, oppure posava il piede sui trofei dei vinti. Era la messaggera della vittoria (non a caso ispirerà l’immagine cristiana dell’angelo), non la sua artefice. Aveva, insomma, qualcosa di subordinato e ancillare. Per i Greci infatti era la personificazione non di una forza autonoma, ma del potere di Marte o, più ancora, di Zeus e Atena (Athena Nike, appunto) che spesso la tenevano nel palmo della mano. Vincere, insomma, era un atto predestinato, un evento deciso dagli dei dell’Olimpo. Sarà soprattutto col romanticismo e con l’età moderna che si diffonderanno Vittorie armate: la Nike da quel momento è considerata una protagonista della battaglia, il cui esito non è più stabilito dall’alto, ma è un fatto storico generato dalla nazione e dipendente dal­l’uomo. Il realismo moderno sottrae così alla guerra tutta la sua dimensione di enigma, di misterium iniquitatis, ancora presente nella statua del Capitolium.
Se la Vittoria alata ci parla della Brixia romana, la Croce di Desiderio testimonia la Brescia longobarda e carolingia, o meglio, come dicono gli storici, il passaggio dall’una all’altra. La grande croce processionale del IX secolo, alta circa un metro e mezzo, tempestata di gemme, tra cui ci sono anche una cinquantina di pietre preziose greche e romane, si trova ora al centro di una sala del Museo di Santa Giulia. Che è uno dei musei più affascinanti d’Italia, non solo perché possiede tanti tesori, ma per la capacità di legare insieme come nessun altro arte e storia. Nelle sue sale si passa cioè dalla visione delle domus romane, con le loro decorazioni, alla basilica longobarda di San Salvatore, con le sue colonne e i marmi; dall’oratorio di Santa Maria in Solario del 1100-1200 al coro delle monache cinquecentesco, e in mezzo quadri, sculture, affreschi… Ma torniamo alla Croce di Desiderio. C’è qualcosa di barbarico in tutto quello sfavillio di gemme che, mentre vogliono alludere alla croce come simbolo di vita e di salvezza, rivelano un amore anticlassico per l’ornamento massiccio, ma l’insieme è spettacolare. C’è però un altro gioiello che rischia di sfuggire all’osservatore: è il medaglione d’arte copta incastonato sul fronte della Croce, che presenta i ritratti di una donna con due giovani. A lungo si è pensato che si trattasse della regina longobarda Ansa o di Galla Placidia con i figli, ma l’identificazione non regge. In ogni caso, chiunque componga la misteriosa famiglia, che sembra ritratta da un Campigli di milleottocento anni fa, non si può non rimanere coinvolti da quei tre volti immobili, che ci guardano dalla distesa dei secoli, disegnati con una precisione della linea che li rende ancora più misteriosi. Perché, come diceva Christian Schad, «non c’è niente di più enigmatico della chiarezza».
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