Una pausa a Forlì
Un percorso nella storia, nella fede e nelle bellezze della città, ricca di tesori dal romanico al Novecento
La terra che fe' già la lunga prova / e di Franceschi sanguinoso mucchio, / sotto le branche verdi si ritrova. (Inferno, canto XXVII, verso 45). La terra cui Dante si riferisce è quella di Forlì, dove, nel 1282, si combatté la storica battaglia con la quale i ghibellini, condotti da Guido da Montefeltro, sconfissero l’esercito guelfo; le “branche verdi” sono gli artigli del leone rampante presente nello stemma dei signori della città, gli Ordelaffi.
Vent’anni dopo quella battaglia, nel 1302, esule da Firenze, Dante troverà rifugio presso Scarpetta Ordelaffi, nell’attuale Palazzo Albicini, e lo aiuterà nel tentativo – fallito poi con la sconfitta di Castel Pulciano – di rientrare a Firenze. La tradizione ghibellina della città risale al secolo precedente: già nel 1241 il libero comune aveva ottenuto dall’imperatore Federico II il diritto di fregiarsi dell’aquila sveva per aver contribuito alla presa di Faenza nella lotta tra guelfi e ghibellini, schierandosi dalla parte di questi ultimi e divenendo il centro del ghibellinismo in Romagna. Scarpetta, eletto “capitano del popolo”, fu di fatto il primo signore della città dal 1295 al 1315, anno della morte, e diede inizio alla dinastia che pur in continua lotta con il papato mantenne il potere per quasi due secoli. Nel 1480, alla morte di Pino III Ordelaffi, papa Sisto IV affida la città al nipote Girolamo Riario, marito di Caterina Sforza, figlia naturale del duca di Milano Galeazzo Maria. Rimasta vedova nel 1488, Caterina assume il governo, cui dovrà rinunciare nel 1500 in favore di Cesare Borgia. Nel 1504, ritornati per un breve periodo gli Ordelaffi, la città passa allo Stato Pontificio.
La famiglia Ordelaffi e la stessa Caterina Sforza si dedicarono alla promozione della cultura e delle arti, lasciando un’impronta nobiliare nella città, tuttora visibile nei palazzi del centro storico e nella Rocca di Ravaldino, che si affianca alle vestigia del periodo romanico e alle testimonianze di epoca barocca, cui appartengono la chiesa e il convento di San Domenico, che insieme alla chiesa di San Giacomo apostolo costituiscono il Complesso monumentale di San Domenico, sede della Pinacoteca e dei Musei civici. Proprio qui si può ammirare un capolavoro che, solo, vale una visita alla città. Si tratta dell’Ebe di Antonio Canova, commissionata nel 1816 dalla contessa Veronica Guarini: la quarta e ultima versione che l’artista realizzò su questo soggetto. È esposta in una sala dedicata, le cui pareti, completamente nere, fanno esplodere il bianco del marmo e risaltare la doratura del bronzo della collana – il suo tratto distintivo, ogni versione è contraddistinta da un particolare –, della brocca e della coppa.
di Paolo Simoncelli