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Tromsø, l’ultima città

La cattedrale dell’Artico, l’università, i musei, gli esploratori: viaggio nell’avamposto urbano nelle terre estreme, dove finisce l’Europa

​Edoardo Castagna

Nella Lapponia norvegese i fiordi non hanno la maestosa profondità di quelli, più celebri, che si aprono tra le montagne del sud del Paese. Qui i fiordi sono intimi, raccolti: quasi che anche la terra, come gli uomini, faticasse a conquistare il mare. Man mano che si spinge a nord, nell’Oceano Artico, il continente si frastaglia e sminuzza in isole basse e pietrose, in rientranze e protuberanze dai margini spigolosi; la nuda roccia affiora dal verde dei muschi e delle erbe, dai quali riescono a trarre nutrimento soltanto le mandrie di renne semibrade nel pendolo millenario della loro migrazione stagionale tra l’estremo nord e l’ancor più gelido entroterra della Lapponia.
È l’antica transumanza dei Sami, il popolo che un tempo chiamavamo lapponi; poco resta della loro tradizione, fatta di slitte, tende e abiti tinti a colori vivaci. Oggi hanno perfino un loro parlamento transnazionale con sede a Karasjok. Erano il popolo dell’entroterra, che sulla costa si è incontrato nei secoli con gli approdi dei figli dei Vichinghi: i porti isolati sgranati lungo la costa e le ancora più rade fattorie, quasi sempre in legno dipinto di rosso con il tetto nero e gli infissi bianchi.
Per lungo tempo solo la rotta regolare del battello postale, il leggendario Hurtigruten, da qualche anno trasformato esso stesso in meta turistica, li traeva dal più totale isolamento; per il resto non erano altro che avamposti di pescatori che si spingevano sulle acque nere dell’oceano a raccogliere il pesce che poi avrebbero steso a seccare sugli hjell, le impalcature di legno che ancora si allineano sulle spiagge basse e fredde. Una vita scandita tutta dal tempo mentale dell’uomo, incurante per necessità di quello della natura che a queste latitudini alterna le infinite notti invernali, quando per settimane il sole nemmeno sorge dall’orizzonte, e le altrettanto infinite giornate estive, quando non riesce a tramontare.
Tra questi porticcioli di case allineate a semicerchio attorno alla baia del fiordo, anch’esse di legno dipinto e a un solo piano, c’è la città, l’unica città del Grande Nord. Tromsø è città a pieno titolo, anche se ha appena settantamila abitanti; d’altra parte, quando le fu conferito il titolo ufficiale da re Cristiano VII di Danimarca nel Settecento, di abitanti ce n’erano ottanta in tutto. Ma è città, oggi, non solo per titolo e tradizione: ci sono l’università e la cattedrale luterana, ci sono la chiesa cattolica e la “cattedrale dell’Artico” (che cattedrale non è), l’aeroporto e i musei, la strada del passeggio, l’atmosfera urbana e vivace, anche culturalmente, del pur minuscolo centro storico. Tutto declinato a misura di Artico, dai marciapiedi riscaldati alle luci accese ventiquattr’ore su ventiquattro, quando occorre.
Nei suoi abitanti alberga, fiera anche se non ostentata, la consapevolezza di essere cittadini, gli ultimi cittadini prima delle terre selvagge che si spingono ancora più a nord; oltre Tromsø anche i centri abitati più popolati, come Hammerfest, mantengono un carattere di provvisorietà, di approdo che è sempre possibile abbandonare in fretta in caso di necessità. Tromsø, invece, resta. Anzi: cresce. Per secoli la città ha coinciso con la sua isoletta, risalita dal porto lungo i suoi fianchi per file di case; poi, ma siamo già nel pieno Novecento, ha conquistato anche la sponda della terraferma, ma senza perdere il suo carattere. Nessun edificio elevato, nessuna costrizione di spazi, qui.
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