Luoghi dell' Infinito > Trittico biblico del silenzio

Trittico biblico del silenzio

Elia nella grotta, l’evangelista Marco, Maria, da Betlemme fino al Golgota: tre “icone” scritturali dove la parola sembra assente

​Gianfranco Ravasi

Tante volte è stato ripetuto il motto che il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein ha lasciato nel suo famoso e arduo Tractatus logico-philosophicus (1922): «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Mai forse un detto è stato smentito nella storia come questo. Tra i due verbi tedeschi usati dal filosofo, sprechen e schweigen, che reggono la frase, l’ha sempre vinta il primo, il “parlare”, non il “tacere”. È un po’ quello che già due millenni fa insegnava un liberto di origini orientali, Publilio Siro, venuto a Roma e divenuto un maestro di etica, attraverso le sue circa settecento Sentenze che ci sono state tramandate. Estraiamo un paio di questi aforismi destinati a coprire entrambi i verbi di Wittgenstein: «Mi sono pentito spesso di aver parlato, mai di aver taciuto… La parola è lo specchio dell’anima: tale l’uomo, tale la sua parola».
Innanzitutto è importante il “tacere”, ed è difficile non confessare che invano ci siamo morsicati la lingua dopo che la parola era sfuggita dalla chiostra dei denti. Ecco, allora, la sana necessità di un’ascesi della parola, soprattutto in un tempo in cui il cellulare, che ad alcuni ustiona l’orecchio tanto ce l’hanno incollato, è un incentivo costante alla chiacchiera più sfrenata e banale. Ma c’è anche il momento in cui è necessario coniugare il verbo “parlare”. La seconda sentenza di Publilio è altrettanto lapidaria: qualis vir, talis oratio, la parola è specchio dell’anima e spesso dobbiamo riconoscere di non fare bella figura. Tra parentesi, ritornando ancora a Wittgenstein, lo stesso discorso vale per la parola scritta: «Coi miei numerosi segni di interpunzione - scriveva il filosofo - vorrei rallentare il ritmo della lettura. Perché vorrei essere letto lentamente». Se è seria e profonda, la parola detta o scritta ha bisogno di un alone di silenzio, di ascolto, di concentrazione.
Abbiamo iniziato la nostra riflessione sul silenzio nelle Scritture Sacre, che ora svolgeremo, partendo da due orizzonti esterni, quello della contemporaneità e - più remoto, ma altrettanto incisivo - quello della classicità. Entrambi si sovrappongono ricordandoci l’interazione necessaria tra parola e silenzio. È ciò che insegna anche la Bibbia che è per eccellenza Parola di Dio, ma è al tempo stesso “mistero”, vocabolo che ha alla base il verbo greco mýein, che significa “tacere, chiudere le labbra” (ed è ciò che accade quando si pronuncia questa parola).
Recentemente è stato tradotto in italiano presso l’editrice Qiqajon della Comunità di Bose il volumetto di un pastore protestante ultranovantenne, il francese Gérard Delteil, dal titolo emblematico, Al di là del silenzio. Egli parte da una frase suggestiva di un poeta suo connazionale, Edmond Jabès (1912-1991): «Dio è il silenzio che dobbiamo rompere». Infatti è, sì, il Lógos, la Parola, ma è appunto anche “mistero”. Non per nulla ciò che Giobbe scopre alla fine delle sue tante interpellanze lanciate a Dio è che il vero dialogo con Lui avviene col transito a un’altra esperienza, quella della visione che spegne le parole: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). Prima, però, lo stesso Giobbe aveva sperimentato non il silenzio ma il mutismo di un Dio simile a un imperatore impassibile relegato nel suo cielo dorato. È quell’apparente indifferenza che ha sconcertato e scandalizzato molti, anche teologi, di fronte alla Shoah, o davanti ai cataclismi della natura.
Di questi volti diversi del silenzio umano e divino, che può essere promessa e ferita, epifania e tenebra, è arduo descrivere i vari lineamenti. Esplorando l’enigma del silenzio, si incrocia appunto il crudo profilo del male che fa affiorare sulle labbra della vittima il grido biblico a Dio: «Perché nascondi il tuo volto?». Ma si dovrebbero inseguire anche altri registri inattesi, come quelli della presenza nell’assenza, del silenzio grembo della Parola, dell’eros del tacere (due innamorati veri, esaurite le parole, si guardano negli occhi senza nulla dire, eppure quel silenzio è molto più eloquente di qualsiasi dialogo), della fede da custodire soprattutto durante il vuoto della voce divina. Un capitolo finale fondamentale rimane, però, quello sul «ritirarsi» di Dio che, creando la persona umana, l’ha voluta dotata di libertà e responsabilità: a essa, artefice di violenza e di sofferenze atroci nei confronti del prossimo, e non tanto a Dio si dovrebbero rivolgere spesso tanti interrogativi laceranti sul male, sulla violenza, sull’ingiustizia.
Di fronte alla vastità di un tema che presenta mille sfaccettature, abbiamo scelto di delineare simbolicamente un ideale “trittico biblico del silenzio”.
[...]