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Tra Bergman e i purgatori hollywoodiani

Centrale nel cinema classico, il tema dell’anima non ha abbandonato quello contemporaneo e si ritrova anche nelle serie tv. A volte con sfumature new age

​Alessandro Zaccuri

Vedere non si vede, lo sappiamo. Ma siamo sicuri che in qualche modo l’anima non si possa pesare? La teoria pseudoscientifica di una lieve, inspiegabile perdita di peso del corpo al momento della morte risuona nel titolo di 21 grammi, il film diretto nel 2003 dal regista messicano Alejandro González Iñárritu a partire da una sceneggiatura dello scrittore Guillermo Arriaga. È una storia di destini incrociati, di coincidenze che di volta in volta possono essere considerate provvidenziali o fortuite. I personaggi principali sono tre: Cristina (Naomi Watts), che ha perso la famiglia in un incidente stradale; Jack (Benicio del Toro) che ha provocato l’incidente; Paul (Sean Penn), che ha avuto in trapianto il cuore del marito di Cristina. Un cerchio strettissimo, all’interno del quale si dibatte il dramma di quei 21 grammi che sarebbero appunto il peso dell’anima. Al centro di tutto c’è la disperazione di Jack, che al momento della tragedia si stava finalmente affrancando dal suo passato di carcerato. Infiammato da una fede venata di ingenuità, si era addirittura convinto che l’auto vinta alla lotteria fosse un dono di Dio, solo che quel dono si è rivelato fatale e Jack, in una delle scene più memorabili del film, arroventa una lama per togliersi dalla pelle la croce che si era fatto tatuare. La cicatrice che resta è, forse, il vero segno che l’anima esiste e che, pur sfuggendo a qualsiasi metrica, non può essere rinnegata.
Non sempre il tema dell’anima è dichiarato in modo intenzionale come accade in 21 grammi. Più spesso è implicito e insieme strutturale, come accade nei capolavori dei tre maestri ai quali il giovane Paul Schrader (futuro sceneggiatore di Taxi Driver e regista di fama) dedicò la sua tesi di laurea. Edito in Italia da Donzelli, Il trascendente nel cinema non è solamente una guida ancora molto affidabile all’opera del giapponese Yasujiro Ozu, del francese Robert Bresson e del danese Carl Theodor Dreyer. Più in profondità, lo studio di Schrader è la rivendicazione del motivo per cui il cinema, arte del visibile, non possa fare a meno di occuparsi dell’invisibile, assumendo un atteggiamento di ricerca trascendentale il cui esito coincide, di nuovo, con l’indagine sull’anima. Esemplare, in questo senso, il lamento di Mikkel davanti al cadavere della moglie Inger in Ordet, il magnifico film – tratto da un dramma di Kaj Munk – con il quale Dreyer vinse nel 1955 il Leone d’Oro alla Mostra del cinema di Venezia. Tutta la vicenda di Ordet (che in danese significa “la parola”) è posta sotto il segno di una religiosità ora oppressiva ora visionaria. Lo stesso Mikkel si è ribellato da tempo al rigido protestantesimo in cui è stato cresciuto e adesso, davanti al pastore che gli parla di immortalità dell’anima, protesta che questo non gli basta, perché di Inger lui ha amato e continua ad amare anche il corpo. Un desiderio umanissimo e straziante, che da lì a breve troverà compimento nel miracolo operato dal fratello di Mikkel, Johannes, finora tenuto in sospetto per via del suo delirio messianico.
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