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Storie della Bibbia un infinito ricominciare

La Bibbia preferisce le storie di fragilità e di nuovi inizi a quelle di conservazione. L’azione di Dio si compie negli interstizi, il futuro si scrive a partire dalle paludi

​Ermes Ronchi

Nella Bibbia sono molti coloro che, incalzati dalla voce di Dio, diventano iniziatori di storie nuove e generano nuovi inizi. Si muovono per fede, fede coraggiosa, perché il coraggio è la virtù degli inizi: lasciare tutto, smontare le tende al levar del sole e inoltrarsi nel deserto; salpare alla brezza leggera del mattino, verso una terra mai raggiunta e già perduta.
Alcuni sono personaggi enormi, da cui non si può prescindere, come Abramo, che parte al lume delle stelle senza sapere dove andare (“una terra che io ti mostrerò”); è nomade, un ricominciante ogni giorno, o almeno a ogni fine dei pascoli. Nella fede siamo tutti figli di nomadi, nel coraggio di chi crede che «il carnato del cielo sveglia oasi ai nomadi d’amore» (Giuseppe Ungaretti, Tramonto). Come Mosè, fuggito alla condanna a morte in contumacia, nascosto nelle tende di Ietro e pastore di un gregge di capre non sue. Dalla precarietà della sua vita, attraverso un reticolo di fughe, chiamate, difetti, ritorni e ripartenze, inizia un’avventura collettiva straordinaria.
I protagonisti della storia sacra, iniziatori del nuovo, non sono degli eroi preparati per la loro missione, ma vengono raccolti da una cisterna, come Giuseppe, da una prigione (Geremia), da dietro i buoi (Amos), da un ramo di sicomoro (Zaccheo), o rimessi in piedi dopo una sconfitta. Nella Bibbia, il futuro si apre nelle paludi.
Come con i Giudici: Israele si è appena installato sulla terra di Canaan, è circondato da piccoli regni organizzati e bellicosi. A ogni periodo di relativa pace succede una invasione, il popolo è sottomesso e depredato.
Allora nel momento della crisi sorge un capo, un giudice che raccoglie i coraggiosi e caccia i nemici. Gedeone e i suoi trecento. Sansone. Jefte. A quella liberazione di nuovo succede un’altra invasione. E ancora Dio fa sorgere un giudice.
Dio interviene nei vuoti della storia, con gesta epiche o umili. Finisce una storia, ma non finisce la Storia. Dio sceglie i punti della storia che un generale non sceglierebbe mai; i momenti di ritirata, di sconfitta, di fuga.
L’intervento di Dio accade non sulle facciate gloriose della storia, ma nei buchi tra un concio e l’altro delle pietre.
Nelle nostre crisi. Sulla croce di Gesù, proprio là dove la mano di Dio sembrava più assente, lì era più presente che mai. Proprio al cuore del male, più che in ogni altro luogo, affiora la punta acuta e fragile della speranza.
Il nuovo nasce sempre con dolore. Lo vediamo anche nelle storie dei profeti.
Giona: alzati (kum) e va’ a Ninive. Il piccolo profeta pauroso, si alza alla voce di Dio, ma inizia una fuga lontano dal Signore, si avventura verso Tarsis, la terra dove il sole va a morire. Infine arriverà, ma sospinto e incalzato da tempeste e naufragi, fino a Ninive, la grande capitale, e cambierà la storia della città.
Elia: alzati e mangia. Tutto accade nel corso di una fuga lunga e disperata, quando il profeta, inseguito dai sicari di Gezabele, sfinito, si lascia cadere sotto una ginestra e si arrende: basta Signore, meglio morire... E l’angelo, per due volte: Elia, alzati, mangia e rimettiti in cammino. Il nuovo viene con fatica e coraggio.
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