Si chiama resilienza il futuro dell’Africa
Dalla Somalia al Sudan alla Nigeria, grandi e piccole storie di persone e comunità segnano la strada per una nuova speranza
Matteo Fraschini Koffi
«Imedia non capiscono cosa sta succedendo. La Somalia non è più solo terrorismo e bombe. Oggi è piena di giovani, anche della diaspora, che vogliono godersi il Paese e rilanciare la speranza». Commenti di questo tipo sono sempre più frequenti nella capitale somala, Mogadiscio.
Sebbene devastata da una decennale guerra civile che continua tuttora, la Somalia non è più quella di una volta. Quella dei signori della guerra, dei rapimenti, degli attentati jihadisti. Tutto ciò è presente, ma deve fare i conti con l’energia del futuro. Con quei somali pronti a rischiare la loro vita ogni giorno per contribuire al futuro del loro Paese. Manar Moalin ne è un esempio molto chiaro. Ha lasciato la Somalia da piccola ed è cresciuta prima in Inghilterra e poi a Dubai. Da qualche anno è però tornata con una parte della sua famiglia a Mogadiscio. «Volevo far parte del percorso di pace somalo a mio modo – ha raccontato Moalin –. Ho quindi formato un luogo dove poter incontrare altri somali e parlare del nostro futuro insieme». La donna ha infatti aperto Posh Treats, un ristorante che ha come obiettivo non tanto il cibo, quanto piuttosto la convivialità. È un punto di incontro per giovani somali che possono scambiarsi le loro esperienze e i propri pensieri riguardo alla realtà in cui sopravvivono ogni giorno. Il luogo è già stato attaccato una volta dai jihadisti di Al Shabaab, ma questo non ha intimorito Moalin e i suoi clienti.
Nel vicino Sud Sudan, teatro di un brutale conflitto civile da oltre cinquant’anni, un gruppo di insegnanti aveva invece deciso che le violenze non potevano giustificare l’assenza di una buona istruzione universitaria. Ed è così che nel 2009 sono state lanciate alcune attività per sostenere l’università della città di Juba, capitale del Paese. Una struttura educativa che, a causa della guerra, da oltre venti anni operava dalla capitale sudanese, Khartum, in attesa di riavviare tutte le sue facoltà a Juba. Tra le varie direzioni prese dai membri di tale progetto, c’è stata l’iniziativa “BooksforSudan”. Studenti e professori universitari, locali e stranieri, hanno cercato di raccogliere attraverso vari canali una grande quantità di libri da destinare alla biblioteca dell’università. I libri arrivavano spesso dall’estero grazie al contributo di singoli individui, altre istituzioni scolastiche o organizzazioni internazionali. «La biblioteca è il cuore di un’università – era il motto dei gestori del progetto –. Le sue condizioni sono un indicatore di come funziona la struttura in generale». Dopo l’indipendenza del Sud Sudan dal Sudan nel 2011, e l’inizio di un nuovo conflitto interno al Sud Sudan nel 2013, i due Paesi sono implosi nuovamente. Decine di migliaia di civili sono morti, mentre milioni hanno dovuto lasciare le proprie case. Sebbene a ogni crisi il sistema educativo abbia subito duri colpi, il progetto ha continuato e ha preso forma anche in altri luoghi. BooksforSudan è arrivato a collaborare anche con il governo e il Centro culturale di Damazin, nella pericolosa regione del Blue Nile, al confine tra Sudan e Sud Sudan. (...)