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Sconfinato e assoluto è il Grande Nord

Nell’immaginario europeo il Grande Nord è da sempre perturbante e inospitale: non per il freddo ma per un paesaggio antitetico a quello familiare del Mediterraneo

​Alessandro Zaccuri

Per fare il suo ingresso nella cultura europea, il Grande Nord si serve dello strumento – spesso ingiustamente bistrattato – del sentito dire. Erodoto, libro IV delle Storie, paragrafo 13: pare che un certo Aristea di Proconneso abbia composto un poema sul viaggio che lui stesso, «invasato da Febo», avrebbe compiuto nelle terre di settentrione. Lassù, riassume Erodoto, vivono gli Issedoni e gli Arimaspi, questi ultimi con aspetto di ciclope; lassù ci sono draghi o grifoni a guardia dei giacimenti d’oro e, buoni ultimi, ci sono pure gli Iperborei, i più nordici di tutti, e i soli pacifici in mezzo a tanti popoli bellicosi. Chiacchiere di mercanti, esagerazioni da giramondo, rese ancora più inaffidabili da quel poco della biografia di Aristea che Erodoto riesce a mettere insieme, riferendo di morti presunte e riapparizioni favolose. Alcuni elementi della descrizione, però, sono destinati ad avere fortuna, primo fra tutti quello che annuncia e un legame tra il fiato infuocato dei draghi e il gelo desolante che assedia gli Iperborei e le altre genti del Nord. Aggiungiamo, con il senno di poi, che da quelle parti ci si ripara dal freddo in abitazioni costruite con blocchi di neve, e che lo spettacolo di luce dell’aurora boreale risarcisce da mesi e mesi di buio a mezzogiorno, ed ecco che la logica degli opposti si sfarina in complicità nella contraddizione.
Il Grande Nord è così da sempre, irresistibile e inospite. Per tornare a percepirne il fascino perturbante bisognerebbe recuperare lo sguardo ingenuo degli spettatori che nel 1922 assistettero alla proiezione inaugurale di Nanuk l’esquimese, che potrebbe ambire alla qualifica di primo film documentario nella storia del cinema se il regista Robert J. Flaherty non avesse inserito troppe sequenze di invenzione. Tutt’altro che ineccepibile dal punto di vista etnografico (almeno secondo i parametri attuali), Nanuk l’esquimese ha comunque costituito una tappa fondamentale per la conoscenza di un territorio che, in precedenza, era stato visitato solo nell’immaginazione. La crociera tra i fiordi non era ancora un’attrazione turistica, per fare un esempio. E per andare al di sopra del Sessantesimo parallelo essere viaggiatori non bastava, si doveva per forza diventare esploratori, e molto coraggiosi.
Non per questo, però, nel lungo intervallo che separa le affabulazioni di Erodoto dalla parziale messa in scena di Flaherty, il Grande Nord aveva smesso di far parlare di sé. Al contrario, le vicende dell’Impero romano possono essere descritte anche nella forma di una graduale e sostanzialmente infruttuosa campagna settentrionale. Intrappolate al di qua del Vallo di Adriano nelle Isole britanniche o fermate dalla furia delle tribù guidate da Arminio nella foresta di Teutoburgo, nel Grande Nord le legioni di Roma non si sono mai davvero acclimatate. Non tanto a causa del freddo, ma perché quelle del Settentrione, come spiegava Tacito nella Germania, sono genti di un’altra tempra: crescono nella sporcizia e nella promiscuità, tracannano birra, non discutono di nulla se non hanno un’arma a portata di mano, tengono in scarsissimo conto la ricchezza e si trascinano dietro le inimicizie di generazione in generazione.
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