Santuari di confine, luoghi di comunità
Dedicati alla Vergine o a santi, costellano le Alpi nordorientali dove la geografia culturale e spirituale è diversa da quella politica
Ulderico Bernardi
Al termine della estesa pianura padano-veneta si alzano le alte cime delle Dolomiti e delle Alpi Giulie. Là sono le terre di confine. Delimitano i paesi della Carnia friulana, della Carinzia austriaca e della Carniola slovena. Dove sono lingue e parlate differenti e nei millenni della storia hanno conosciuto domini e sovranità contesi e aspri ma anche scambi di civiltà fra latini, germanici e slavi, che hanno generato un forte senso di autoctonia. Quel sentimento che Mircea Eliade volle definire “mistico”, che va oltre l’amore per il paese natio, come impasto di vite e di memorie. Elementi unificanti dello scenario culturale sono la montagna e la visione cristiana del mondo. Questi sono i due pilastri antropologici chiamati a reggere il senso del vivere su questi monti. Entrambi sono universali e sacri.
L’altura è il simbolo più proprio dell’ascesi, della vocazione naturale a salire, ad andare oltre, a lasciare la terra con gli occhi rivolti al cielo. E la fatica è il premio del sacrificio compiuto. Non c’è montagna che non assuma in sé il valore sacrale dell’altitudine. Dall’Himalaya alle Ande, dal Fujiyama alle groppe dove vivono i nativi statunitensi e canadesi costretti spesso a battersi contro la profanazione delle cime per piantarci un osservatorio astronomico o altro impianto che cancelli lo spirito degli antenati. Le frontiere tra visibile e invisibile, tra sacro e profano, sono inviolabili per le culture tradizionali. In ogni tempo. Il santuario diventa il segno tangibile della volontà perenne di tutelare la propria identità comunitaria e si fa manifesto impegno a salvaguardare indispensabilmente l’origine e la continuità, grazie alle risorse spirituali e materiali, boschi, pascoli e animali, le case e chiese dei villaggi alpini.
Per secoli, la montagna è stata demonizzata dalla pianura. Era l’ambiente ostile, tra abissi e nevai eterni. Era il bosco fitto, dominio dell’orso e del lupo. Ancora nel Seicento, i viaggiatori che si avventuravano di necessità tra i valichi alpini riferivano di animali mostruosi, d’insidie immani, d’orridi precipizi. L’avvento dell’industrialesimo nel XVIII secolo, con una rivoluzione del pensiero che innesca la sfida tra cultura e natura, vede gli alpinisti inglesi portare la trasgressione nell’area, rimuovendo i tabù e conquistando le vette.
Cominciano processi di mutamento che cambieranno il paesaggio, gli stili di vita, i modelli di riferimento nello scenario montanaro. Dalla violazione elitaria all’aggressione di massa. Al turismo degli scalatori, dei naturalisti e degli escursionisti colti seguirà l’epoca dei grandi sanatori, degli alberghi di lusso, fino alla diffusione popolare degli sport sulla neve. In mezzo ci sono esodi, ruscellamenti a valle, l’elettrificazione e le dighe, l’abbandono o l’estremo ridimensionamento dell’agricoltura alpina, almeno in certe zone. Con un assoggettamento progressivo alle logiche di pianura.