Santuari della memoria
I musei aspirano a dare forma al tempo e da luoghi delle Muse sono diventati spazi di ricerca culturale e di educazione
Il Museo di Castelvecchio, a Verona, con l’allestimento di Carlo Scarpa (Scala)
Un’ala del Kimbell Art Museum di Louis Kahn a Forth Worth(Texas), caratterizzato da una geniale illuminazione diffusa dalle volte (Kimbell Art Museum/Art Resource/Scala)
L’esterno del Centre Pompidou, a Parigi, di Renzo Piano e Richard Rogers (Mondadori/Electa/Marco Covi)
La Turbine Hall, cuore della Tate Modern di Herzog & de Meuron, a Londra (Mondadori/Electa/Marco Covi)
Il ventre della Piramide del Louvre, di Ieoh Ming Pei (Zoonar/Anisimova/Mondadori)
Non vi è celebrazione più potente della “memoria” umana di quella espressa da sant’Agostino nel capitolo decimo delle Confessioni. La scopre, insieme ad “attesa” e “attenzione”, nell’interrogarsi sul tempo: la riconosce dunque come uno dei tre stati della coscienza umana che distingue il tempo in futuro, presente, passato. Vi si sofferma a lungo, stupito per la sua singolare vastità e potenza. Tutto il mondo che l’uomo incontra può essere conservato nei suoi campi e nei suoi vasti quartieri, «dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati i prodotti del nostro pensiero», e dove «si conservano, distinte per specie, le cose che, ciascuna per il proprio accesso, vi furono introdotte: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi attraverso gli occhi; attraverso gli orecchi invece tutte le varietà dei suoni, e tutti gli odori per l’accesso delle narici, tutti i sapori per l’accesso della bocca, mentre per la sensibilità, diffusa in tutto il corpo, la durezza e la mollezza, il caldo e il freddo, il liscio e l’aspro, il pesante o leggero, sia all’esterno sia all’interno del corpo stesso. Tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue, come dire, pieghe segrete e indescrivibili, per richiamarle e rivederle all’occorrenza». La vastità cavernosa può apparirgli anche «enorme palazzo», «santuario vasto, infinito», essendo questa facoltà grandiosa, di «infinita e profonda complessità» che intimorisce perché: «Chi giunge mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono».
La sua presa di coscienza fa scoprire ad Agostino l’enigmaticità della propria condizione umana, lo trascina in una catena di interrogativi su di sé, sulla costruzione del proprio sapere e sulla ricerca di felicità della vita, in una scorribanda affannosa nello spazio immenso della memoria, per giungere infine alla domanda cruciale, a Dio. Il filosofo sa che Dio certamente abita in essa, già lo ha incontrato nella verità, nella “Verità Persona”, e gli chiede: «Quale stanza ti sei fabbricato, quale santuario ti sei edificato? Hai concesso alla mia memoria l’onore di dimorarvi, ma in quale parte vi dimori?». Allo stesso tempo non può non riconoscere l’eccesso del proprio affanno: «Perché cercare in quale luogo vi abiti? Come se colà vi fossero luoghi». È divenuta celebre la sua fulminea presa di coscienza, giunto a questo punto, che capovolge i termini della ricerca: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori».
di Maria Antonietta Crippa