San Quirico d'Orcia e il fascino dell'antico
Dagli etruschi ai fasti del Rinascimento, e una pieve medievale come cuore. Crocevia della Francigena, per il poeta Alfonso Gatto era un luogo dell’Infinito
di Ugo Sani
Accovacciata sull’asse spazio/temporale di strade antiche, come la via etrusca che dalla lucumonia dell’ager clusinus porta al mare e proprio qui incrocia la Via Francigena, protesa da nord verso l’altare di Pietro e oltre fino all’imbarco per Gerusalemme, San Quirico d’Orcia la devi ascoltare. Perché ha da raccontare il rumore della storia e il canto dell’arte; il divenire e l’essere, la memoria che si srotola e l’istante che contiene in sé passato, presente e futuro in un unico battito. Mettersi in ascolto delle sue pietre è udire la pena dei carri che stridono, gli zoccoli dei buoi, lo scalpiccìo dei cavalli che vanno ad abbeverarsi alle sue fonti, le grida dei mercanti, le preghiere dei pellegrini, le imprecazioni delle osterie. Cresciuta dall’argilla e dalle arenarie, si è nutrita di un dinamismo culturale che solo il suo essere paese di strada riesce a giustificare. Definire San Quirico paese medievale sarebbe una semplificazione imperdonabile. Perché è stratificazione, è metamorfosi, talvolta giustapposizione, frutto e flusso ininterrotto del lavoro dell’uomo che ha lasciato le sue tracce lungo un millennio almeno. Non è farfalla infilzata dallo spillo dell’entomologo, ma pietra viva e mutevole. Una delle espressioni più alte di questo divenire è certamente la sua pieve dei Santi Quirico e Giulitta, divenuta Collegiata nel 1648. E in uno dei suoi portali, quello laterale di Giovanni Pisano, racconta il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, dal soldato romano al pellegrino/sacerdote, che trovano il loro ponte nell’iscrizione Iohes scolpita nel timpano: Giovanni il Battista e il suo portale segnano una frattura e un approdo, dalla guerra alla pace, nel sacro segno del battesimo e dell’avvento di Cristo. Vicariato imperiale per volontà di Federico I il Barbarossa, poi sottomessa a Siena con gli juramenta del 1213 e del 1256, fino alla caduta della Repubblica non ebbe mai signori locali a governarla, ma subì i destini senesi fino all’avvento del granducato mediceo prima e lorenese poi. Dal 1560, nel più vasto quadro politico della pax medicea, la storia di questo presidio militare senese in Val d’Orcia muta repentinamente. Meglio che altrove il cambiamento è narrato dagli Horti Leonini e dalla costellazione delle epigrafi che danno voce a chi li volle realizzare; quel Diomede Leoni, nativo di San Quirico, che in quegli anni, pur vissuti a Roma al servizio del cardinale Ferdinando dei Medici, non dimenticò mai il suo paese e anzi, restaurando le mura rovinate dalla guerra contro Firenze, dette vita a un giardino tardo rinascimentale geniale nell’utilizzo e nella distribuzione degli spazi: come lui amava dire, «a ornato di quel luogo» ove era nato e «per li viandanti» che, soprattutto negli anni giubilari, attraversavano in gran copia la via Romea che taglia in senso longitudinale l’abitato medievale, dalla porta a Camaldoli alla porta Romana, e lambisce il trecentesco hospitale e la grancia del Santa Maria della Scala antistanti la pieve romanica di Sanctae Mariae, come ancor oggi la chiamano gli abitanti del luogo. Un piano inferiore d’ingresso segnato dalle geometrie del bosso e uno superiore, cui si accede da una scala che fende il “selvatico” dei lecci, sono uniti e separati da un busto emblematico di Giano. Diomede Leoni realizzò la propria abitazione in un “ingrossamento” delle mura dove aprì finestre affacciate verso l’esterno. Perché l’hostis è diventato hospes, come se ancora una volta si inaugurasse una nuova era.
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