San Filippo Neri e la gioia dell’Annuncio
Da laico e poi da sacerdote nella Roma del Cinquecento portò il Vangelo nel segno dell’amicizia e della libertà
Edoardo Aldo Cerrato
“Filippo Neri testimone di umanità nuova, attinta dall’umanità di Cristo” potrebbe essere una sintesi della figura e dell’opera di un santo – laico per trentasei anni e sacerdote per i suoi restanti quarantaquattro – che fu un dono di Dio alla Chiesa del suo tempo e non lo è meno per l’oggi, come ha sottolineato anche papa Francesco nel Messaggio per il quinto centenario (2015) della nascita di Filippo (Firenze, 21 luglio 1515 - Roma 26 maggio 1595): vero «cesellatore di anime – ha scritto – grazie al suo apostolato. L’impegno per la salvezza delle anime tornava ad essere una priorità nell’azione della Chiesa; si comprese nuovamente che i Pastori dovevano stare con il popolo per guidarlo e sostenerne la fede. […] San Filippo Neri rimane un luminoso modello della missione permanente della Chiesa nel mondo. La prospettiva del suo approccio al prossimo, per testimoniare a tutti l’amore del Signore, può costituire un valido esempio per vescovi, sacerdoti, persone consacrate e fedeli laici».
Era fiorentino Filippo, e fiorentino rimase anche diventando romano. «Deve la sua originalità, e quasi unicità, fra tutti i santi del mondo – scrisse Giovanni Papini – all’impronta incancellabile della sua nascita fiorentina. È un ragazzo fiorentino che, per l’intervento soprannaturale d’un amore immoderato per Cristo, s’è innalzato fino ai vertici della santità, rimanendo in parte quel che era, cioè fanciullo, faceto e oltrarnino». Lo testimoniavano già i primi discepoli del santo: «Sì com’egli era fiorentino così haveva caro che gli altri sapessero ch’ei fusse».
Filippo lasciò Firenze molto giovane, inviato dal padre a San Germano (oggi Cassino) a far fortuna presso un ricco parente, mercante di stoffe, che gli offriva considerevoli possibilità; lasciò anche San Germano, dopo non molto tempo, e giunse a Roma ventenne (dimentichiamo quanto presenta una recente, pur bella, fiction televisiva…). Per mantenersi fece il precettore nella casa del capo della Dogana, mentre seguiva lezioni di filosofia e corsi di teologia. Lasciò anche questi studi, non per scarso interesse (ne portò il gusto per tutta la vita), ma «ut vocantem Christum sequeretur», per seguire Cristo che lo chiamava, come scrive Antonio Gallonio, il suo primo biografo, nel 1600. Non pensava al sacerdozio: diventerà prete a trentasei anni, e «per mandamento del suo padre spirituale». La vocazione che sentiva era la chiamata a una intensa adesione a Cristo, abitando la città con i suoi problemi e bisogni, amandola nella realtà del presente e del suo passato, in un autentico atteggiamento di “secolarità” del laico cristiano. Una qualità, uno stile, che possiamo (con l’oratoriano padre Giulio Cittadini) definire «disposizione d’animo a percepire dall’interno le inquietudini dell’uomo e i movimenti che percorrono la società; attitudine all’ascolto e al dialogo, capacità di avvicinamento e di condivisione in un clima di serenità e rispetto; disponibilità a “salvare” il mondo abitandolo, non beneficandolo dall’alto senza condividere le sue ansie e le sue crisi. Così come ha fatto Gesù che si è incarnato, si è messo con noi».
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