Sahara, i tre colori dell'universo di sabbia
Bianco, Nero e Giallo: quanti mondi diversi contiene il più grande tra i deserti Tra rocce, dune, oasi, luce, un viaggio che non conosce confini
Andrea Semplici
Un ricordo antico. Improvviso. Riapparso, come un lampo, non appena mi è stato chiesto di scrivere questo articolo. È un’immagine imperiosa a riemergere di fronte ai miei occhi. Sono leoni, quegli animali al galoppo sul filo di un orizzonte di sabbia? Apparvero, in un tramonto, come un miraggio: erano davvero una mandria in fuga nel Grande Vuoto dei deserti occidentali dell’Egitto? Come era possibile? Non potevano esserci leoni, nessuno poteva vivere qui, in questo nulla assoluto.
Ci accorgemmo, dopo il tempo dello stupore, che quei fantasmi in corsa erano immobili. Erano mud lyons, “leoni di fango”, impietriti dal vento e dalla sabbia. Le loro savane erano scomparse da secoli e secoli, il deserto non era la loro terra. Il Sahara egiziano oggi è, assieme al deserto cileno di Acatama, il luogo più arido del pianeta: una media di un millimetro d’acqua all’anno. Può non piovere per decenni e decenni. Diecimila anni fa, gli ultimi monsoni hanno sfiorato questo altopiano e, da allora, non sono mai più tornati. I leoni, con un ruggito senza voce, chiesero solo di non scomparire. E qualche divinità del Sahara prese a cuore la loro sorte: vennero trasformati in statue e, a ogni primavera sahariana, il khamsin, il vento “dei cinquanta giorni”, tempesta rovente che risale dal profondo del deserto, cominciò a scolpire e levigare, con mulinelli rotanti di polvere, le loro schiene pietrificate.
Nel Deserto Occidentale egiziano, al-Sahra’ al-Gharbiyya, oltre un milione di chilometri quadrati, un immenso “niente” fra la valle del Nilo e la inquieta frontiera libica (a nessuno che si avventuri in queste solitudini oggi è consentito avvicinarvisi, ma tale divieto è violato di continuo da banditi, mercenari, jihadisti…), la geografia e la geologia hanno giocato d’azzardo e di arte per migliaia e migliaia di anni e si sono concesse bizzarrie straordinarie costruendo sorprendenti monumenti alla potenza della natura. L’uomo, da tempo immemorabile, ha ammirato e temuto la solitudine di queste terre. Ne era affascinato e terrorizzato nel medesimo istante. Gli uomini del deserto, carovanieri, pastori e agricoltori berberi e arabi, hanno sempre benedetto il cielo per le sorgenti che hanno reso possibile vivere in un pugno di oasi (Siwa, Fayyum, Bahariya, Farafra, Dakhla e Kharga), quasi allineate, da nord a sud, in una linea geometrica che disegna, fra sabbia e rocce desolate, una sorta di mezza luna. A volte, nella storia, uomini delle oasi e avventurieri stranieri hanno tentato esplorazioni impossibili, abbagliati da orizzonti che attiravano come sirene. In molti, gente celebre in queste terre (il principe egiziano Kemal al-Din Hussein, il conte ungherese László Almasy – è lui Il paziente inglese –, Ralph Bagnold, leggendario comandante del corpo britannico dei Long Range Desert Group), hanno cercato per anni e anni l’oasi scomparsa di Zerzura, “l’oasi delle acacie”, un mistero che nessuno ha ancora chiarito. [...]