Rinascenze, tra mito e storia
Bisogna sottrarre il passato (e il presente) al binomio decadenza/rinascimento
Franco Cardini
Itala gente, dalle molte vite: così è stato detto, ed è passato a torto o a ragione in proverbio. Ciò significa che l’autobiografia collettiva degli italiani – che ha trasformato questo endecasillabo in una massima – passa attraverso l’idea delle morti e delle resurrezioni collettive: rispondendo a distanza a un’invettiva di Alphonse de Lamartine, che aveva parlato dell’Italia come della “Terra dei morti”, Giosuè Carducci componeva a Bologna nel 1890 un’ode, Piemonte, nella quale a proposito della Prima guerra d’indipendenza, quella del 1848, esclamava: «Italia, Italia! – E il popolo de’ morti surse cantando a chiedere la guerra». La poesia carducciana, al di là della polemica contro Lamartine a proposito del “popolo de’ morti” che riscatta se stesso, riprendeva il tema eroico del recupero di libertà e di dignità attraverso i conflitti armati; e ribadiva che solo con l’uso delle armi un popolo fosse in grado di riscattarle. Era un tema antico, desunto da Dante, da Petrarca e da Leopardi. In realtà, quello che l’uso della storia in quel tempo indicava come necessario alla gloria e alla rinascita d’Italia corrispondeva a una realtà più complessa e profonda, che si poteva intendere solo in termini di autocoscienza nazionale. Ma allora, quanto a lungo si poteva risalire nel tempo? Attenzione alle trappole semantiche. La parola Italia è antichissima: risale forse almeno al VI-V secolo a.C. Ma la “cosa” che essa indica è molto mutata nella sua sostanza; e gli Italici indoeuropei già presenti su parte del suo suolo – quanto meno sulla dorsale appenninica – fin dal X secolo a.C. circa, gli abitanti dell’“umìle Italia” virgiliana ricordata da Dante, non sono certo semplicisticamente rubricati come “italiani”. Per assistere a una sia pur differenziata identità linguistica e a una qualche autoconsapevolezza culturale degli “italiani” si dovrà aspettare fino al XIII-XIV secolo: diciamo, linguisticamente parlando, su un arco teso tra gli illustri esempi del Cantico delle Creature e del Decameron (ancor più di Dante e di Petrarca, che parlando d’Italia pensavano principalmente all’antica Roma e al regnum Italiae definito nel X secolo da Ottone I).
Esistono, da allora, gli italiani, per quanto, almeno per altri quattro secoli, si dovrà distinguere fra loro – gli abitanti dell’Italia centrosettentrionale, variamente inquadrati nel Sacro Romano Impero o negli stati della Chiesa – e i “regnicoli” d’origine – etnicamente parlando – soprattutto ellenico-longobardo-arabo-berbera, soggetti dall’XI secolo in poi successivamente a normanni, svevi, angioini, aragonesi, asburgo-ispanici, borbone-ispanici, quindi soggetti a una dinamica del “fare gli italiani”, strumenti principali della quale furono la scuola elementare, il servizio militare basato sulla leva obbligatoria e alcune guerre dal 1866 al 1945. Ci si rassegnerà al fatto che le cosiddette “invasioni (e incursioni) barbariche”, se e nella misura in cui sono realmente avvenute fra II-III e X secolo, non sono “crisi” (e quindi il loro superamento non è “resurrezione”) delle quali gli italiani siano stati vittime o protagonisti, per l’ottima ragione che gli italiani allora non c’erano – per essere storicamente “italiani” non è sufficiente essere nati nella penisola –, e che essi nacquero semmai da allora, e da eventi come quelli?
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