Quattrocento, miracolo italiano
Il secolo in cui Piero operò fu di miserie e di splendori. I protagonisti, gli eventi, la peste e la fine del Medioevo
Piero della Francesca, nato a Borgo Sansepolcro fra 1415 e 1420 e morto ad Arezzo nel 1492, è un genio universale che riempie della sua presenza l’intero secolo magico dell’arte italiana, il Quattrocento. Ma anche i geni universali vivono in un tempo e in luoghi precisi, determinati: anzi, sono appunto geni universali in quanto meglio di chiunque altro sanno interpretare lo spirito del loro tempo e degli ambienti nei quali hanno agito. Piero visse nell’ultimo secolo del cosiddetto Medioevo fra Toscana, Romagna e Marche, vale a dire tra la repubblica di Firenze e gli Stati della Chiesa dominati, nella loro parte orientale, da straordinari signori quali Sigismondo Pandolfo Malatesta e Federico da Montefeltro. Una situazione cronologica e geopolitica eccezionale.
Quale fu il contesto nel quale visse? La risposta può sembrare sconvolgente. Quello era, anzitutto, un tempo di malessere. La congiuntura demografica e socioeconomica del Trecento, culminata nella peste del 1347-50, sorprese le istituzioni comunali in piena crisi. Crisi che, specie nell’Italia settentrionale, era stata del resto a quel punto già sovente risolta mediante forme differenti di delega comunitariamente concessa a un “signore”. All’avanguardia nell’Europa dei secoli XII-XIII con le sue ricche città, i suoi floridi traffici, la sua economia monetaria sviluppata e vorticosa, la Penisola (o almeno il nord e il centro) subì in pieno le conseguenze dell’epidemia. Crollarono molte fortune bancarie, si spopolarono città e campagne, subirono forti variazioni i costi dei beni e dei servizi. Un crescente malessere, ma anche un più sviluppato senso sociale e una più matura visione delle contraddizioni derivanti dagli sfruttamenti e dai privilegi, determinarono rivolte cittadine e rurali, che in genere si conclusero non già con l’allargamento, bensì con un drastico restringimento della base sociale dei governi cittadini o regionali.
Ciò poté accadere sia perché il processo di assoggettamento dei comuni minori a quelli maggiori finì col determinare l’avvio di grandi stati “territoriali”, sia in quanto in molti comuni le “libertà” cittadine (che erano, in realtà, tali soltanto per privilegio, e appartenevano ai ceti dirigenti aristocratici o alto-borghesi ma non erano estese a quelli subalterni) nel corso del Trecento si andarono perdendo a vantaggio di regimi appoggiati a forti personalità. Nel Quattrocento, molti “signori” – designati città per città dalle popolazioni o da una parte egemone – avevano scelto di darsi a una superiore autorità, in modo da non dover più dipendere dai capricci dei loro governati: e reggevano pertanto una o più città come “vicari imperiali” o, negli Stati della Chiesa – vale a dire nelle città e nelle aree che a vario titolo avevano accettato il dominio della Santa Sede –, “vicari pontifici”, collegando alle superiori autorità ecumeniche imperiale o pontificia la loro autorità specifica ed esercitandola formalmente in loro nome.
di Franco Cardini