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Piramidi e rosari. Un diario messicano

Da Città del Messico a Cuernavaca, tra autobus e scrittori, viaggio alle radici delle contraddizioni di un grande popolo

​Eraldo Affinati

Il panorama dall’aereo, innanzitutto. Non ho mai visto una città così estesa. Né Los Angeles. Né Tokyo. Né Shanghai. A destra e a sinistra luci attaccate una all’altra a perdita d’occhio, come una fiesta. S’intravedono le direttrici autostradali. Un manto stellare precipitato a terra, disintegrato. È questo il frutto, mi viene da pensare, dell’incontro-scontro fra latini e indios. Per capirlo, bisogna andare a raschiare sotto. La vecchietta vende il mais, all’angolo della strada, vicino a suo nipote, accanto al distributore di benzina. Il traffico è sempre intenso, a qualunque ora. Il taxista guida frenetico. Ha la pelle scura, i tratti indigeni. Conserva l’immagine della Madonna di Guadalupe nel ciondolo, come tutti. Quasi a ogni angolo di strada c’è la Signora, colei che si mostrò al “piccolo” contadino Juan Diego e sollevò dallo sconforto il popolo indio che era caduto in depressione dopo i massacri di Cortez: come era stato possibile che le antiche divinità lo avessero permesso?
Stamattina siamo partiti in taxi da Città del Messico per Cuernavaca, la città dell’eterna primavera. Si scende giù per l’autopista da 2.300 metri a circa 700. Il monastero è a qualche chilometro di distanza dal centro. Lì conosciamo padre Konrad, americano di Portland, Oregon, che a vent’anni si è fatto monaco benedettino e ora dirige le operazioni in questo convento che attira centinaia di fedeli. Ha gli occhi azzurri, il portamento sicuro, lo sguardo diretto. È un uomo stabile, equilibrato, intenso. Nel chiostro regna una pace esotica con piante e fiori meravigliosi. Lui ci spiega questo mondo e quell’altro. I monaci gli girano intorno: honduregni, sudamericani, ma anche europei.
Lo studio del sacerdote ha una magnifica vista sulla vegetazione circostante. Sembra il boccaporto di un veliero. I bambini, che ancora non possono avere l’eucarestia, ricevono la benedizione. Poi un altro taxi – col conducente dai jeans strappati e il rosario intrecciato allo specchietto retrovisore – ci scarica davanti alla cattedrale: assomiglia a una grotta incendiata, ma forse sono soltanto gli anni che passano a farla sembrare così. Cuernavaca è tre cose: la cattedrale dai giardini ben curati, la residenza di Cortez (un fortino implacabile sul cucuzzolo) e la casa di Massimiliano d’Austria. Per me questa città s’identifica con l’albergo dove Malcolm Lowry compose nel 1947 Sotto il vulcano.
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