Patagonia la fine è un inizio
Viaggio nella terra dove il nulla è pieno di significato e la cui indescrivibilità ha stimolato decine di scrittori
Da molti anni ho un desiderio: ridiscendere la Ruta 40, la strada impossibile, la strada-confine fra le Ande e le Pampas argentine, la strada di ripio, dal fondo di ghiaino che fa pattinare le auto, che lambisce ghiacciai e si arrampica su passi che provano a sfiorare il cielo. Cinquemilacentonovantaquattro chilometri, diciotto fiumi da scavalcare, ventisette vette andine da scalare, venti parchi nazionali da attraversare. Dai confini della Bolivia alla frontiera con la Terra del Fuoco. Voglio arrivare in Patagonia con la gloria della Ruta 40.
Per anni, gli anni delle letture di Bruce Chatwin, di Luis Sepúlveda, di Francisco Coloane, questa terra (non la “fine del mondo”, ma uno dei “centri del mondo”) è stata, per me, un’ossessione. Fu Bruce, un inglese snob e insopportabile, grande scrittore, a portarmi fin laggiù: dovevo pur sedermi nella grotta del Milodonte, un animale leggendario e magnifico, un orso preistorico, per seguire le tracce di Chatwin, per vedere, per capire la sua Patagonia. Ero arrivato fino a Puerto Natales, porto della regione di Ultima Esperanza (i nomi delle geografie, a questa latitudine, sono una meraviglia), solo per salire al Cerro Benitez e andare in cerca di quella cueva, di quella grotta un tempo abitata da un animale fantastico. Non mi deluse, né la grotta, né Bruce. Le sue storie mi avevano accompagnato in un viaggio irripetibile. E, da europeo, mi resi conto che esistono due, forse più, Patagonie.
E allora andai a trovare Luis Sepúlveda, scrittore cileno. Lo incontrai alle porte dell’inverno australe e lui mi disse: «Sto per andare». Nel periodo peggiore dell’anno, quando là è solo tempesta, buio di venti, mari di ghiaccio. Aggiunse: «Io sto bene in Patagonia. Il mio spirito si ritrova, le mie batterie, laggiù, si ricaricano». Troppo facile, Luis. Gli scrittori si prendono gioco della meraviglia e della forza immane della Patagonia. La nascondono dietro una cortina banale. Quel pennivendolo di Paul Theroux alza le spalle e annota sul suo taccuino (sapendo bene che noi siamo lì a leggere): «Non avendo niente da fare, decisi di andare in Patagonia». E poi, in poche righe, per ben quattro volte fa ruotare la sua scrittura attorno alla parola nulla: «Qui non c’era nulla di cui parlare, nulla che mi trattenesse. Solo il paradosso patagonico: minuscoli fiori in uno spazio immenso; per stare qui bisogna essere miniaturisti, oppure provare interesse per enormi spazi vuoti [...] si deve scegliere fra il minuscolo e l’immenso». Vogliamo continuare? Scrive ancora Paul: «Non ci troverete nulla. Non c’è nulla in Patagonia». Paul Theroux è arrivato alla fine del mondo pur di scrivere un libro straordinario di quattrocento pagine.
di Andrea Semplici