Pablo Neruda poeta ortolano
Cinquant’anni anni fa moriva il Nobel cileno. Le odi ai piccoli ortaggi sono tra i suoi capolavori
Ricordo bene quando Neruda è morto. Era il ’73, quasi una pausa tra le rivolte del ’68 e quelle del ’77, che si sarebbero concluse con l’assassinio di Aldo Moro. Ricardo Neftalí Reyes Basoalto (Parral, 12 luglio 1904 - Santiago del Cile, 23 settembre 1973) aveva indossato lo pseudonimo letterario di Pablo Neruda prendendolo pari pari dal poeta ceco Jan Neruda. All’inizio solo per scomparire agli occhi del padre che tutto avrebbe voluto fuorché avere un figlio poeta. Il nome Neruda, più tardi, si stabilizzò anche legalmente. Nonostante il dispiacere paterno, ebbe un’insegnante eccellente poetessa, che sostenne la virulenza poetica del giovane. Rimasto da piccolo orfano di madre, con il padre che lascerà in giro qua e là qualche figlio, Pablo nel corso della sua vita convogliò a tre matrimoni.
Non so se aveva ragione Garcia Márquez quando diceva che Neruda era il maggior poeta anche rispetto ai colleghi di tutte le altre lingue. Personalmente ricordo le sue poesie d’amore, tradottissime in Italia. A una festa di capodanno, con un’altra manciata di adolescenti, mi costrinsero a registrarne un certo numero da proporsi durante la serata. Voleva essere un incontro quasi culturale ma ben presto si trasformò in un disastro. Il registratore aveva un volume troppo basso e la casa grande in cui eravamo non sapeva cosa farsene di quel mio stralunato recitare nel macchinario d’occasione. Credo che il povero Neruda si sia rigirato con sdegno, come uno spiedo, nella propria sepoltura.
A quel tempo la cultura latino-americana, si consideri il Nobel a Neruda assegnato nel 1971, correva per le metropoli europee. Il quadro era ampio e articolato: si pensi alla teologia della liberazione, a Marshall McLuhan con il suo “Il mezzo è il messaggio” e l’altrettanto tagliente Deschooling society di Ivan Illich. Certo era anche il momento de L’uomo a una dimensione di Marcuse, che francamente, nonostante la vetrina, ricordo come più molliccio nella forza del pensiero. Era anche il tempo degli Inti-Illimani, con i loro canti indimenticabili, intorno all’epica di Che Guevara. Neruda veniva da quell’America Latina zeppa di colori, di intelligenze appassionate e di temperature solari e ibernate. Neruda è un ragazzo che diventa diplomatico, diventa comunista, amico del medico pediatra Salvador Allende: nemici dell’oppressione del capitale, lasceranno quasi contemporaneamente questo mondo. Un destino aperto e determinato quello di Neruda, il quale conoscerà García Lorca, il poeta di Nozze di sangue, che sarà fucilato nel ’36 e che noi conosceremo attraverso Carlo Bo. Sono importanti queste diagonali esistenziali, perché costituiscono la personalità semplice, sentimentale e tragica del poeta Neruda, che cercherà di convogliare tutto nel Canto generale del Cile. Il crogiolo dell’America Latina è completamente altro dalla più debordante America del Nord. A partire dalle leggi di Isabella d’Aragona che, per evitare la schiavitù in quelle terre, favorì i matrimoni tra europei e autoctoni. La miscellanea vitale che ne derivò, conduce i suoi rivoli fino nei versi di Neruda stesso.
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