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Nuove case per i figli di Abramo

Luoghi come la Abrahamic Family House ad Abu Dhabi o il tunnel tra la moschea e la cattedrale di Giacarta sono esempi di uno spirito nuovo nel segno del dialogo

​Maria Antonietta Crippa

Accade a tutti di constatare l’emergere felice, nella propria esperienza, di un rapporto stretto e carico di senso tra immaginazione e realtà. Capita per fatti personali, ma anche per fenomeni collettivi. Perché immaginare non è fantasticare, è esercitare la potente, e insieme rischiosa, capacità umana di anticipare la concretezza di vedere qualcosa in modi o forme definite, per poter agire. Nei luoghi di culto di ogni religione questo legame si può tradurre in forme architettoniche che corrispondono felicemente all’esigenza umana di comunione tra gli uomini e con Dio. Per questo, ad esempio nella cultura cristiana, la chiesa è stata spesso intesa come anticipo della Gerusalemme celeste: lo è come luogo di santità e di sacro compimento del destino umano. Ma della prossimità degli uomini con Dio tutti i luoghi di culto sono segno, voluto come tale sia nella peculiare distinzione figurativa sia nella qualità di bellezza che li fa emergere, nel tessuto connettivo di una città o di un paesaggio, talvolta con magniloquenza talaltra con discrezione.
Ciò accade perché immaginazione e realtà si connettono tra loro sulla base di un senso del sacro, di un fattore universalmente caratterizzante la coscienza umana, espresso presso i popoli in esperienze, al contempo personali e corali, che possono essere vissute non solo nei luoghi di culto, dove emergono come vertice espressivo condiviso, ma anche, ad esempio, nella contemplazione di un paesaggio naturale. A metà del secolo scorso il rumeno Mircea Eliade, antropologo e storico delle religioni, ha affermato: «Il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della storia della coscienza. L’esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall’uomo per costruire un mondo che abbia un significato». Nella storia, infatti, questa universalità del sacro si è affermata con costanza in miti e riti, in luoghi e oggetti, con teologie, azioni misteriche e devozioni proprie delle diverse religioni.
 L’argomento non è di quelli sui quali ci sia oggi una facile concordanza, benché la parola non casualmente sia di largo uso. Ne tento qui una sintetica e approssimativa definizione. L’aggettivo “sacro” - dato a luoghi e cose di fattura umana e non coincidente tout court né con con la loro materialità né con il “divino” - indica un’esperienza in cui, di fatto, molti si riconoscono. Segnala l’apertura della ragione umana al mistero della vita e la sua capacità di esprimerne in segni, per via di simboli, la realtà. Dall’inizio del XX secolo, anche come sostantivo, il “sacro”, divenuto oggetto di discipline scientifiche come l’antropologia religiosa, è stato indagato da studiosi di grande levatura quali Rudolf Otto, Mircea Eliade, Julien Ries e molti altri, dando luogo a una sua chiarificazione già oggi feconda. Se la cultura occidentale tecnicamente più avanzata vive in generale attualmente una crisi del sacro che ne rende problematico il riconoscimento, d’altro canto, precisa Ries, si sono chiarite le sue componenti e le variazioni di accento nel tempo. È divenuto ad esempio più evidente il superamento di un più antico o tribale senso del sacro nelle religioni monoteiste - giudaismo, islam e cristianesimo - che segnala una loro potenziale prossimità antropologica, ferme restando le profonde differenze.
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