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Meister Eckhart e il mistero di Dio

Nella filosofia antica, che distingue animae spirito, si radicala mistica di Eckhart. L’obiettivo è separarsi da tutto per conoscere Dio

​Marco Vannini

Obbediente al precetto dell’Apollo delfico, “Conosci te stesso”, fin dai suoi inizi la filosofia ha avuto l’anima come oggetto primario di indagine, dal momento che, come scrive Platone, «l’uomo, se è qualcosa, non è altro che anima» (Alcibiade I, 130 a-c). Il nostro breve discorso non può perciò partire che da quello che Hegel considerò l’unico libro di psicologia fino ai suoi tempi esistente, ovvero il trattato Sull’anima di Aristotele. L’anima, che «è in qualche modo tutte le cose» (ivi, 431b), ha le facoltà sensibili non indipendenti dal corpo, con cui fanno un “composto” (koinòn), ma così non è per le facoltà superiori, quelle intellettuali. L’intelligenza che lavora col materiale che le viene fornito dall’esperienza sensibile è determinata dallo spazio-tempo, e dunque condizionata, ma al di sopra di questo intelletto tutto recettivo, “passivo”, Aristotele pone l’intelletto “attivo”, che non si mescola col sensibile spazio-temporale, «non ha niente in comune con alcunché», ma ne è «separato». «Un altro genere di anima», «divino, impassibile», «immortale ed eterno» (ibid., 408b; 413b; 429b; 430a), tale intelletto ha costituito sempre un problema per la riflessione filosofico-psicologica, che spesso non aveva, e non ha, l’esperienza necessaria a comprenderlo. La piena comprensione c’è comunque nell’ultima grande voce della filosofia antica, ovvero in Plotino, che spiega come l’intelletto (noûs) sia la facoltà di ragione che agisce indipendentemente da tutto ciò che ha a che fare col corpo, con la molteplicità, con lo spazio e col tempo. Esso è ciò che più propriamente ci costituisce, perché, anche se quando diciamo “noi” possiamo indicare il “composto” col corpo – dal momento che abbiamo pure un corpo –, l’elemento veramente umano e non animale, l’«uomo interiore» di cui parla Platone (Repubblica, 589 a-b), è l’intelletto, elemento divino nell’uomo (cfr. Enneadi, I, 1, 10; V, 1, 40).
Alla filosofia antica era anche chiaro che la conoscenza dell’anima e del «divino che la governa» (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, X, 1.177b), ovvero la conoscenza di ciò che veramente siamo, è essenziale alla felicità – anzi, alla beatitudine – in quanto con tale conoscenza si vive la vita più propriamente umana, realizzando la nostra vera natura (ibid., 1178a). Memore di ciò, il nostro Dante ripete che l’uso dell’intelletto, «fine e preziosissima parte dell’anima, che è deitade», dà una beatitudine in vita simile a quella celeste (Convivio, III, 2, 19; III, 15, 5).
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