Malevic, icone al quadrata
A Bergamo una mostra sul grande pittore russo che raggiunse l’astrazione meditando il sacro
Ragazze in un campo (1928-29), olio su tela. San Pietroburgo, Museo di Stato Russo
È un’autobiografia che non sembra affatto quella di un artista d’avanguardia, anzi è lontanissima dagli stereotipi del moderno. Nelle sue pagine si avverte un profumo di vecchia Ucraina, perché Malevic parla della sua nuova pittura, ma parla anche di pittori di icone, di notti di luna, di scene di vita contadina, di piatti fumanti di borsch (la minestra grassa di Kiev). E si ritrae non come un artista contemporaneo, ma come un pittore senza tempo, attratto dal Medioevo e da Cimabue, dai costumi delle donne di campagna e dai filatoi affrescati dai contadini. Racconta, per esempio, che andava a spiare i pittori di icone nelle chiese, che ammirava i galletti di legno intagliato nelle izbe, che amava i fiori dipinti dalle contadine e i lavori di uncinetto della madre.
Insomma, Malevic ci racconta una storia diversa. Lui il passato lo guarda, eccome. Certo, preferisce le icone al Rinascimento. Pensa che Giotto sia più grande di Raffaello e che i Bizantini siano più intensi dei barocchi. Al classicismo sostituisce un primitivismo attento anche all’artigianato popolare. Ma non c’è nelle sue parole nessuna tabula rasa, nessuna retorica rivoluzionaria. La sua stessa astrazione (la volontà, cioè, di fare pittura solamente col colore e le forme geometriche) la intende non come un guardare avanti, ma indietro: guardare alle icone, appunto, che non rappresentavano il visibile, l’anatomia, la prospettiva, ma l’invisibile, l’infinito, il sentimento di Dio.