L’uomo è viaggiatore
Da Piero della Francesca a Caravaggio a Giacometti così l’arte ha raccontato l’umanità in ricerca
«Il volto delle fate fotografate» scrive il poeta Franco Gentilucci. Le fate sono le damigelle che partecipano al pellegrinaggio più bello della storia della pittura: quello compiuto dalla regina di Saba per incontrare re Salomone. Lo dipinge Piero della Francesca, intorno al 1470, nella basilica di San Francesco ad Arezzo.
Certo, è un pellegrinaggio sui generis, forse non è nemmeno un pellegrinaggio. Eppure l’intensità, la nobiltà, la sacralità di quel viaggio rimane senza uguali. Secondo la Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, a cui il maestro toscano si riallaccia, durante il percorso la regina del Sud (nella Bibbia non è mai chiamata per nome) riconosce il sacro legno che servirà per la croce di Cristo e si inginocchia ad adorarlo. Piero non ci dice nulla delle fatiche della sovrana, che è additata ad esempio anche da Gesù: «Venne dalle estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone» (Luca 11,31; Matteo 12,42).
Nel suo affresco tutti sono agghindati come per una festa di corte, i palafrenieri non hanno un grammo di polvere sugli abiti inamidati, le “fate” e la regina, elegantissime, hanno veli immacolati che incorniciano la loro fronte, liscia come un poliedro platonico (usava rasarsela, all’epoca, per renderla più alta) e, si intende, non imperlata dalla minima goccia di sudore. Ma non c’è nulla di salottiero, nulla di frivolo nella composizione. Tutti vivono in una dimensione di eternità. Tutto, sembra dire Piero, è già stato fissato prima dei secoli e deve solo essere portato a compimento.
Per trovare una rappresentazione di maggior realismo (anche se di un realismo sempre relativo) bisogna cercare tra i dipinti che rappresentano il santo pellegrino per eccellenza, san Rocco. Rimasto orfano ancora ragazzo, Rocco aveva venduto tutti i suoi beni e aveva lasciato Montpellier, dove era nato e aveva studiato, per compiere un pellegrinaggio a Roma. Durante il viaggio aveva incontrato vari focolai di peste (si era nella seconda metà del Trecento) e il morbo non l’aveva risparmiato. Per questo è sempre stato rappresentato con i segni del contagio. Il Parmigianino, per esempio, che lo dipinge nel 1527 in una pala monumentale, alta quasi tre metri (Bologna, basilica di San Petronio), lo raffigura mentre solleva la gamba per mostrare il bubbone che l’ha deturpato, e guarda verso il cielo per ringraziare Dio che l’ha guarito. Il gesto, fin troppo didascalico, con cui il santo si pone come mediatore tra l’uomo sulla destra (il committente) e Dio dipende invece dal momento storico: erano trascorsi solo dieci anni dalla pubblicazione delle tesi di Lutero e si voleva rammentare il ruolo dei santi insidiato dalla Riforma.
di Elena Pontiggia
Artisti e migranti:
anime in transito
È stato forse Francesco Hayez il primo artista a mostrare la dimensione storica – al di là quindi di un tema letterario come ad esempio Enea in fuga da Troia – di un popolo forzato all’esodo dalla guerra. In I profughi di Parga, grande tela del 1831 ispirata a un episodio del 1819 della lotta di indipendenza greca dalla Turchia, ci sono tutti gli elementi che caratterizzano le tragedie contemporanee: una città in fiamme, padri che stringono i figli, il pope ortodosso a testimoniare quanto la fede accompagni chi emigra, le barche che si allontanano mentre una folla si accalca sulla spiaggia in attesa di partire. Non solo: Parga fu ceduta dagli inglesi (era un protettorato della corona britannica) agli Ottomani nel corso di trattative sulle isole dello Ionio. Nemmeno i giochi geopolitici tra potenze sono cambiati più di tanto.