Lo stupore chiamato per nome
Quando la bellezza affascina: un cammino nel pensiero d’Occidente, dove lo splendore irradia l’Annuncio
Velasco Vitali, Ascensione (2012), tempera su carta
Agostino Arrivabene, Corona santa (2008), olio su tela di lino
Agostino Arrivabene, Ruah (2012), olio e oro su legno. Il termine ebraico ruah, soffio, designa anche lo spirito di Dio
L’altare realizzato nel 2012 da Giuliano Vangi per il Duomo di Arezzo. Sulla parete è visibile Maria Maddalena (1460-1466), affresco di Piero della Francesca
Il tempo della “ragione forte” delle ideologie è anche il tempo dell’utopia: dove la ragione moderna pensava di aver tutto compreso, la volontà di potenza delle ideologie ambiva a imporre alla realtà complessa e drammatica la totalità senza ombre dell’idea, rincorrendo l’aspirazione utopica di un compiuto regnum hominis. In quest’ambizione, affamata di totalità, non restava spazio per la bellezza, perché per essa non può esserci posto dove non siano riconosciuti l’ulteriorità, l’indicibile, il mistero: la bellezza evoca, non cattura; suscita, non arresta; invoca, non presume. Perciò, nel tempo dell’utopia velleitaria della ragione adulta la bellezza è stata spesso respinta, esiliata o ridotta a calcolo dall’estetica strumentale delle ideologie. Nel tempo del disincanto e della ragione debole, dove la massificazione ideologica ha ceduto il posto alla folla di solitudini del regno del frammento, nella postmodernità nichilista rinunciataria di fronte alla verità e al bene, perché sospettosa nei confronti di tutti gli orizzonti globali di senso di cui l’ideologia aveva abusato, solo la bellezza può offrirsi come via d’incontro con ciò per cui valga la pena di vivere e di vivere insieme, con ciò che sia capace di vincere il dolore e la morte e di dare speranza alla vita.
Fra utopia e disincanto sarà la riscoperta del bello che aiuterà a incontrare il Tutto nel frammento, l’orizzonte unitario di senso nella frammentarietà delle esperienze e delle scelte di ciò che è penultimo: “la via della bellezza” non va concepita a guisa di una formula totalizzante, ma come metafora di un cammino possibile e fecondo per restituire ai frammenti un orizzonte di senso e cogliere nella Verità ultima e sovrana la vera sorgente e il fondamento della dignità del frammento. Occorre aprirsi a una sorta di ritrovata “filocalia”, amore per la bellezza, di un senso del bello, cioè, che sia educato all’amore della Bellezza che salva, offerta nella rivelazione. Solo il riconoscimento dell’offrirsi dell’infinito nel finito, della lontananza nella prossimità, solo la comprensione estetica della verità e del bene, potrà essere in grado di parlare efficacemente al mondo umano, “troppo umano”, che è il nostro mondo post-moderno. Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall’ideologia. Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboliste, di sterili riflussi nel privato
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di Bruno Forte