Le anime nell’arte
Oggetto soprattutto dell’opera di artisti del Medioevo il tema scompare gradualmente nel corso dei secoli, fino a essere nel ‘900 una metafora dello spirituale
Elena Pontiggia
Come si fa a dipingere le anime? Per secoli gli artisti hanno risolto il problema dipingendo i corpi. E così nelle allegorie della morte, nelle immagini del paradiso, del purgatorio, dell’inferno e in altre iconografie ancora, le anime sono ben concrete e visibili. Possiamo dire che la resurrezione dei corpi nell’arte è già avvenuta.
Come non pensare, a questo proposito, all’Inferno, 1260-1270, di Coppo di Marcovaldo (e aiuti) nel battistero di San Giovanni a Firenze? Da sette secoli e mezzo un Satana terrificante, con le mezzelune delle corna sul capo e i serpenti che gli escono dalle orecchie, divora le anime dei peccatori. Lui stesso è seduto su un molle nido di rettili che addentano i dannati, mentre una legione di demoni, e di mostri simili a lucertole o rane, non smette di ghermire i disgraziati per portarglieli come prede. Quelle che vediamo sono figure in carne e ossa, solo più smilze e stilizzate che nella realtà, come se fossero corpi di cavallette, più che di uomini.
Ma come mai possiamo guardare una scena così terribile senza provare un senso di raccapriccio? Perché, a ben vedere, anche nella rappresentazione dell’orrore gli artisti antichi non premevano fino in fondo il pedale dell’orrido. Anche in una scena così tragica (e perfino un po’ grottesca) come questa, il magistero compositivo di Coppo si esprime nella simmetria dei monti e dei serpenti intorno a Satana, nell’accordo dei colori, nel bilanciamento degli elementi nello spazio, e insinua qualcosa di – dobbiamo pur dire – armonioso nel luogo più disarmonico che esista.
Anche Buffalmacco nel Camposanto di Pisa dipinge le anime. Di lui parlava già il Boccaccio, mentre il Ghiberti, nei suoi Commentari, ha scritto che era un «eccellentissimo maestro» e che, quando «metteva l’animo nelle sue opere», sorpassava tutti gli altri. Eppure è stato trascurato per secoli. Si è cominciato a capire davvero la sua grandezza solo una cinquantina di anni fa, quando gli sono stati definitivamente attribuiti gli affreschi appunto del Camposanto. Qui, nel Trionfo della morte, 1336-1341, Buffalmacco ci lascia alcune scene di intensa suggestione, come quella dell’anima che un demone dal becco d’uccello (quasi un Max Ernst ante litteram) strappa dalla bocca di una donna appena morta. L’anima qui, secondo un’iconografia diffusa, ha la fisionomia paffuta e morbida di un bambino, estratto dal corpo della defunta come dal grembo di una partoriente. La sorte delle anime dannate, insomma, ha qualcosa di violento. Di viva tenerezza, al contrario, è l’immagine delle anime dei salvati, portati in cielo dagli angeli. Sono anch’esse raffigurate come bambini, ma i cherubini li tengono fra le braccia con infinita cura e a volte si servono anche delle ali ricurve per proteggerli.
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