La vera poesia è disarmata
Dalle voci nelle trincee della Grande Guerra ai versi suscitati dall’Ucraina: i poeti si oppongono alla retorica bellica
Guido Oldani
Accendo il televisore per cercare chissà quale programma e mi imbatto in una rubrichetta veloce che propone pittori di diversi secoli e luoghi. Una manciata di secondi viene dedicata a un’opera di Tiziano Vecellio: siamo nel 1510 e il ritratto proposto è quello di Ludovico Ariosto. È un attimo e mi balza alla mente l’Orlando Furioso del poeta di Reggio Emilia e la sua maledizione rivolta all’innovazione delle armi da fuoco. Già, perché è in quel tempo che compare l’archibugio (“arco con un buco” per la fuoruscita del proiettile). Da allora ogni uomo vile potrà colpire qualunque valoroso. È finito per sempre il tempo degli Ettore o dei Diomede, che si affrontavano viso a viso con la forza della loro epicità.
Sono tali le riflessioni che mi disturbano la mente, nei giorni in cui mi tocca vedere il mio Paese, anche con i miei pochi soldi, fornire armi per immaginare fantasmagoricamente di perseguire, in tal modo, una pace impossibile. Sono più o meno codeste le considerazioni che mi vengono alle labbra mentre sfoglio una serie di nobili poesie, bellissime e feroci, sulla guerra. Le due che sono certamente le più potenti e indimenticabili sono di Clemente Rebora: Voce di vedetta morta (1915) e Viatico (1916). Ho deciso che questi due testi li terrò sul comodino da rileggere, di giorno in giorno, per tutto il tempo della durata di questa guerra che tutti, ma proprio tutti, desiderano far continuare. Oramai ho imparato a memoria questi due componimenti ma in particolare la prima quartina di Viatico. «O ferito laggiù nel valloncello, / tanto invocasti / se tre compagni interi / cadder per te che quasi più non eri».
[...]