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La rivoluzione degli Inni Sacri

Con il ciclo incompiuto Manzoni intendeva rendere popolare la lirica, senza avere modelli di riferimento

​Pierantonio Frare

Gli esordi lirici di Manzoni erano perfettamente in linea con la tradizione italiana, per quanto riguarda sia l’autobiografismo sia la tensione al sublime in senso classico. I risultati poetici erano eccellenti, come riconobbero subito i contemporanei, ma lasciarono insoddisfatto Manzoni, a causa, come spiega in una lettera a Claude Fauriel (6 settembre 1809), della «assoluta mancanza di interesse» che una poesia simile ha per il pubblico più ampio a cui egli aspira. Promette a sé stesso che d’ora in poi, a rischio di fare versi più brutti, non ne farà certo più di simili. È ciò che avverrà con gli Inni Sacri.
La conversione (resa pubblica nel 1810) agisce in più direzioni: innanzitutto, perché dà valore a una attività, quella di scrittore, la cui utilità è periodicamente messa in discussione, e che era stata fortemente ridimensionata proprio dall’illuminismo: alla luce del Vangelo, Manzoni vede legittimata la propria fedeltà a una vocazione e si sente nel contempo chiamato a renderla utile per i propri simili. Inoltre, l’adesione al Vangelo lo porta a rovesciare la concezione del sublime: la sua poesia perseguirà non il sublime dall’alto che gli è consegnato da una illustre tradizione, ma il sublime dal basso. Il modello è il sublime della Croce, cioè di Colui che si è fatto servo di tutti prima di essere, proprio per questo, innalzato al regno. Ne consegue il diverso ruolo dell’io: l’autobiografismo deve cedere il passo a una poesia collettiva, in cui l’io fa sacrificio di sé, lasciandosi riassorbire dal noi di una comunità unanime, in cui il poeta si fonde, senza spiccare in nessun modo. Il che significa anche rinunciare al linguaggio selezionato e individualistico della tradizione lirica italiana per attingere al serbatoio biblico, in umile ossequio a parole già dette, che il poeta si incarica di ripetere e, proprio in questa ripetizione, di rinnovare.
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