La natura della bellezza
Castiglione e Rocca d’Orcia, Montalcino, la pieve di Corsignano: viaggio tra storia e arte nella terra che danza
di Giovanni Gazzaneo
Quando la terra comincia a danzare eccoci in Val d’Orcia. Non possiamo immaginare il cuore dell’Eden, ma forse i suoi confini: le colline che ti abbracciano, le valli che ti accolgono. E la Val d’Orcia è molto vicina all’idea di Paradiso terrestre. Qui la terra danza davvero, con il suo ondulare dolce che nasce da questo scambio millenario tra la natura e l’uomo, che rende fertile ciò che non era e ancora più bello quel che già bello era. Questo paesaggio a volte lunare si è trasformato in un tripudio di colori. Il protagonista assoluto, di generazione in generazione, dalle genti etrusche ai contemporanei, è il contadino. La danza della terra, questo suo scendere e salire, vive totalmente di colui che piega la schiena fino a toccar le zolle e insieme alza lo sguardo al cielo per leggere il nuovo giorno che arriva.
Beppe, che piantava viti e cantava l’Alighieri, sapeva riconoscere la nuvola carica di pioggia e quella sterile, il rosso della tempesta e l’annuncio del tempo buono, le brezze del mare e i venti di terra… Diceva aprendosi al sorriso e segnandosi con la croce del Signore: «Se non sai leggere il cielo, la terra non la coltivi». E dove terra e cielo sono tutt’uno i poeti hanno la loro patria. Mario Luzi ha amato questa terra. Ma ancor più ha amato la sua gente. E chi vuole “entrare” in Val d’Orcia deve mettere radici. Perché la terra non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo alla terra. E tutto quello che viene trasformato a misura di turista alla fine diventa una piccola o grande Disneyland. Magari meravigliosa e millenaria come Venezia o Firenze, città così tradite e sfruttate da farle diventare un parco giochi di piazze, chiese, musei, monumenti per questa folle globalizzazione che ha trasformato i popoli in masse e la persona in consumatore… La terra, il paese, la città non è di chi ci passa ma di chi ci abita. E una cosa è certa: la Val d’Orcia è ancora di chi la abita e di chi sceglie di abitarci. Un vero e straordinario Patrimonio dell’Umanità nato dai magnifici cinque: Castiglione d’Orcia, Montalcino, Pienza, Radicofani e San Quirico.
Il nostro viaggio ha inizio da due tra le più belle “balconate”. Siamo nel cuore della valle. Una di fronte all’altra la rocca degli Aldobrandeschi e la rocca di Tentennano. Lo sguardo va dall’Amiata a Montalcino a Radicofani. Diceva Luzi: «Guardare il “mare mosso” delle crete è come trovarsi davanti al dilagare di un oceano di terra». Qui si naviga nella natura e nella storia. Vicini i castelli di Ripa e di Campiglia. Il Medioevo ci abbraccia in ogni dove. La via Francigena ci mostra i passi lenti degli antichi romei: l’ospitale delle Briccole, la chiesa di San Pellegrino, l’ospitale dell’Arcimboldo… Le strade strette di Castiglione d’Orcia ci conducono alla piccola piazza dedicata al Vecchietta, artista senese del Quattrocento. Tutto è semplice ed essenziale: la pavimentazione di ciottoli di fiume e di mattoni, il cerchio delle case medievali tra le quali svetta il palazzo del Comune, edificato nel Duecento, con il suo campanile a vela. A qualche centinaio di metri la Rocca di Tentennano, la cui storia risale al IX secolo. Dal 1274 sotto il dominio dei Salimbeni controlla, fino a tutto il Trecento, gran parte della Val d’Orcia. Rocca d’Orcia conserva integro il suo impianto medievale. Qui Caterina da Siena, analfabeta, riceve il dono della scrittura e della lettura. Racconta Serena Domenici, ricercatrice: «Il quadro della Val d’Orcia che emerge dalle voci di chi vi soggiorna è, fino al ventesimo secolo, quello di una zona impervia e selvaggia, poverissima, abitata da genti rozze e lontana dalla civiltà. Come traspare dalle lettere di Caterina da Siena, che dal 1362 al 1367 viene portata dalla madre a bagnarsi nelle acque termali di Bagno Vignoni per provare a distogliere la figlia dalle mortificazioni a cui si sottoponeva “in nome di Gesù”. Ma il tentativo non giunge a buon fine, poiché Caterina sceglie di bagnarsi sotto il getto dell’acqua bollente per provare “le pene dell’inferno”. Torna poi nel 1377, dimora per cinque mesi a Rocca d’Orcia, e racconta della durezza dei locali: “mascalzoni” e “demoni incarnati”». Già nel 1339 gli abitanti di Castiglione d’Orcia erano stati colpiti da scomunica, mai revocata. Tutto nasce da un dissidio con i camaldolesi dell’eremo del Vivo per dei diritti di pascolo, e nel 1328 il monastero viene saccheggiato e i monaci costretti ad andarsene. Papa Benedetto XII nomina un conciliatore, l’abate di Santa Trinità di Spineta. Dopo aver riunito la popolazione per la celebrazione eucaristica l’abate Francesco invita a risarcire i camaldolesi con 1600 scudi. Ma invece dei denari riceve bastonate. Ecco allora la scomunica e dopo la scomunica carestie, peste, devastazioni… Una cattiva fama che Alice Rossi, vicesindaca, ci tiene a smentire: «Siamo una piccola comunità di duemiladuecento anime: gente autentica e accogliente con chi vuole vivere l’essenza di questo nostro piccolo mondo. Dickens, di passaggio verso Roma, si è fermato al Podere La Scala e ci ha descritto come un cumulo di terra arida. Ecco, noi del deserto abbiamo fatto un giardino di grano, di viti e di ulivi». Le fa eco Marco Bartoli, sindaco di San Quirico: «Siamo l’unico Comune del territorio che vede una crescita di abitanti. Forse anche perché ci facciamo carico della nostra storia, che è il nostro tesoro - della nostra gente prima che del turismo - e cerchiamo sempre un dialogo con la contemporaneità, a partire dalle arti».
Arriviamo a Montalcino sul far della sera. Ha una storia antica: Mons Ilicinus, monte dei lecci, la chiamavano i Romani, e nello stemma medievale un leccio si erge sopra sei colli. Questa altura, ora coperta da ulivi e vigneti, è stata abitata dagli Etruschi. Un tempo di pertinenza dell’abbazia di sant’Antimo, diviene libero Comune. Domina il borgo la rocca voluta da Siena: ci ricorda il passaggio alla Repubblica dopo la battaglia di Montaperti del 1260. Questa è la capitale del vino, il mitico Brunello, ma anche del miele. E tutta la Val d’Orcia è ricca di tipicità: ha salvato dall’estinzione la cinta senese, qui nasce il tartufo bianco e si produce il miglior zafferano, dà il nome al “vino più bello del mondo”, l’Orcia, a Pienza troviamo un pecorino d’eccellenza e col grano duro si impastano i pici…
Ma proseguiamo il nostro viaggio per giungere alla pieve romanica dei Santi Vito e Modesto a Corsignano, architettura di grande bellezza, isolata nella campagna. L’interno a tre navate custodisce l’antico fonte battesimale, dove Enea Silvio Piccolomini riceve il primo dei Sacramenti. Il campanile cilindrico ricorda le round tower a difesa delle antiche chiese irlandesi. Ci avventuriamo sulle strade bianche, tra filari di cipressi e campi di grano. E ci sovvengono i versi della Strada tortuosa di Luzi: La strada tortuosa che da Siena conduce all’Orcia / traverso il mare mosso / di crete dilavate / che mettono di marzo una peluria verde / è una strada fuori del tempo, una strada aperta / e punta con le sue giravolte al cuore dell’enigma. / Reale o irreale, solare o notturna - / assorti ne seguivano / il lungo saliscendi / di padre in figlio i miei vecchi con un presagio di tormento». Giungiamo al castello di Cosona. Ci accoglie Ilaria Bichi Ruspoli Forteguerri (e Forteguerri è la famiglia della madre di Pio II): «Alla fine del sistema mezzadrile i miei avi rinunciarono alle case e alla vita di città per “salvare” la campagna, trasferendosi a Cosona. Nonna Minina è stata fra i primi negli anni Settanta ad avviare un’attività di agriturismo, restaurando i casali lasciati liberi dai contadini. Il Poggiolo, per esempio, è la meta di una famiglia di intellettuali francesi che estate dopo estate e generazione dopo generazione continua a tornare sperando di non trovare cambiamenti».
Ma non tutti sono d’accordo con lo sviluppo, anche se nel segno della sostenibilità. Don Fernaldo Flori, amico di Luzi, parroco di Sant’Anna in Camprena e di Cosona, scriveva: «La plaga valdorciana, raddolcita a forza di scalzi, di morsi, di sgarri calando le colline e quasi squagliandosi al basso, privata dell’asprezza dei sodi, delle crete, dei ginestreti, dei botri, ha perso la bellezza barbarica e plastica dei contrasti che la univa al tempo fermo della creazione [...], magnificenza di rilievi e di frane aggiustate dalle stagioni che si modellavano, svariando, sul tempo fermo e preparate per nascita e crescita [...]. S’è cominciato a fare “agriturismo” con quel tanto di rispetto al rustico, ma già si pretende la raffinatezza cittadina e alberghiera. La terra dà quel che è: la sua naturalezza, il cielo, il sole, la pioggia, il fango le stelle». Una cosa è certa. Il paesaggio lunare che nel 1840 non era piaciuto affatto a John Ruskin, che sostava a Radicofani nel viaggio verso Roma, è in gran parte perduto e si è trasformato. E quel qualcosa di lunare che resta andrebbe preservato per noi e per chi verrà dopo di noi. Perché, come dice Jovanotti: «Toglie il fiato la Val d’Orcia. Qui c’è la magia: acquaterraariafuoco». In una sola parola dice tutto il bello del mondo.