La Bibbia dell'agricoltura
La prima immagine che riguarda sia Dio che l’uomo è l’agricoltore. Tutto nella Bibbia parla della terra
Gianfranco Ravasi
È sorprendente, ma una delle prime icone teologiche bibliche è quella del Divino Agricoltore. La offre un passo della Genesi: «Il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e adatti all’alimentazione, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male» (2,9-10). Tante volte l’arte ha immaginato questa scena raffigurandola attraverso mirabili panorami “paradisiaci”, popolati di paesaggi verdeggianti e di folle di animali, mentre loro due, chiamati simbolicamente Adamo (“uomo”) ed Eva (“vivente”), stanno al centro nudi in tutta la loro bellezza.
Anche una delle prime rappresentazioni bibliche della creatura umana è di taglio agricolo. Il Creatore, infatti, impone un duplice impegno all’uomo e alla donna. Il primo: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,28). La persona umana riceve da Dio una dignità di sovranità delegata sul creato. In realtà, i due verbi ebraici usati contengono un significato più sfumato e persino suggestivo: kabash, “soggiogare”, originariamente rimanda all’insediamento in un territorio che dev’essere esplorato e conquistato, mentre radah, “dominare”, è il verbo del pastore che guida il suo gregge.
Si tratta, certo, di un primato che purtroppo l’uomo spesso ha esercitato in modo tirannico e non come un compito. Esso è specificato da un secondo dettato del Creatore così formulato: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e custodisse» (Gen 2,15). È interessante notare anche in questo caso che l’attività propria dell’umanità è espressa con i due verbi ebraici ‘abad e shamar, che contengono un duplice significato. Il primo è quello esplicito dell’operare, trasformare, investigare e tutelare le potenzialità della natura attraverso l’attività lavorativa e scientifica. L’altro aspetto è nel fatto che i due verbi indicano nel lessico anticotestamentario anche il “servire” liturgico e l’“osservare” la legge divina, due componenti fondamentali dell’alleanza storica tra il Signore e Israele. C’è, dunque, una sorta di patto primario “naturale” tra il Creatore e l’umanità che si esprime nella tutela e nella trasformazione del creato. Un patto che, purtroppo, spesso l’uomo infrange, devastando e occupando brutalmente la terra.
Il lavoro agricolo, simbolo dell’homo faber, nelle Sacre Scritture non è, quindi, una condanna ma una dignità, ed è solo il peccato – cioè la prevaricazione e l’oppressione – che lo rende alienante, come si dichiarerà nella stessa Genesi: «Maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita!» (3,17). Per questo c’è una vera spiritualità del lavoro che è esaltata soprattutto da san Paolo che non esitava ad «affaticarsi operando con le sue mani» (1Cor 4,12), forse fabbricando tende, per non essere di peso a nessuno: «Non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno, ma abbiamo lavorato duramente, giorno e notte, per non essere di peso ad alcuno di voi» (2 Te 3,7-8).
Ed è con la serenità di chi sa di «aver lavorato onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi è in necessità» (Ef 4,28), che l’Apostolo ammonisce ancora i Tessalonicesi: «Vi abbiamo dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi» (3,10). Curiosamente questa frase entrerà persino nella Costituzione dell’ex Unione Sovietica, tanto l’impegno nel «coltivare e custodire» la terra attraverso il lavoro è riconosciuto come necessario in ogni società; che purtroppo, però, spesso non ne tutela la dignità e i diritti.
[...]