L'eterno della Bibbia e il rapporto con la storia
Il Nuovo Testamento è attraversato da tensioni escatologiche. Ma la profonda intuizione dell’ebraismo e del cristianesimo è il rapporto essenziale tra Dio e storia
Gianfranco Ravasi
«In quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo. Sarà un unico giorno: non ci sarà né giorno né notte, verso sera risplenderà la luce». Il giorno sta avviandosi al tramonto. Ed ecco la grande sorpresa: la luce non si attenua, il crepuscolo non avanza, i brividi della notte non si fanno sentire. Anzi, quando si sta per giungere alla svolta del ritmo circadiano, basato sulla sequenza dì-notte, luce-tenebra, una nuova aurora cancella l’oscurità. Si ha, così, «un unico giorno», un costante flusso di luminosità che mai s’incrina, mai è striata dal buio, mai è pervasa dal gelo notturno.
È questa la descrizione simbolica della pienezza dei tempi, di quella che nel linguaggio teologico viene designata come “escatologia”, termine di conio greco che significa “discorso sulle cose ultime”, ossia la meta estrema verso cui converge la nostra storia, o in un altro linguaggio più generale, l’eternità, oltre il tempo storico, e l’infinito, oltre lo spazio cosmico. A offrircela nel passo citato in apertura è il profeta Zaccaria (14,6-7). Essendo la luce un’immagine e persino una definizione di Dio, è evidente che con questa rappresentazione l’autore vuole delineare quell’approdo ultimo come una piena e perfetta comunione con Dio, eterno e infinito.
Per alcuni studiosi il profeta avrebbe assunto come modello la festa ebraica autunnale delle Capanne, durante la quale la notte veniva rischiarata da grandi falò che si accendevano nel tempio e sulle mura di Gerusalemme: non per nulla anche Gesù, proprio durante quella solennità, si presenta come «la luce del mondo» e ridona la vista al cieco nato (Gv 9). Anche l’Apocalisse, quando raffigura la Gerusalemme nuova che discende dal cielo come un dono divino, la tratteggia secondo gli stessi canoni proposti da Zaccaria: «La città non ha bisogno della luce del sole né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello […] Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte» (21,23.25).
Nella tradizione cristiana, quando si deve descrivere la pace e il riposo finale dei defunti, nella preghiera del Requiem aeternam, si evoca esplicitamente la lux perpetua, la luce senza fine che avvolgerà i giusti, sulla scia del profeta Isaia che alla Gerusalemme perfetta e santa ricordava: «Il Signore sarà per te la luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore» (60,19). La luce è un segno della vita e dello stesso essere: la prima creatura è, infatti, la luce (Gn 1,3) e Qoelet osservava che «dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole» (11,7). Ciò che il profeta Zaccaria - in verità il frammento da noi citato appartiene, secondo gli studiosi, al cosiddetto Secondo Zaccaria (a cui vanno attribuiti i capitoli 9-14), un profeta anonimo di epoca tarda (forse IV secolo a. C.) - ci presentava sopra è, però, la luce dell’eternità, quella che simbolicamente incarna il nostro essere per sempre con Dio.
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