L'arte di vedere gli alberi
Dal Medioevo al Novecento, gli artisti hanno tradotto visivamente la ricchezza dei diversi modi di approcciarsi alla natura
Alessandro Beltrami
L’uomo tende a estendere retrospettivamente al passato il suo approccio attuale a un tema o a un problema – come, in sostanza, si fosse “sempre pensato così”– e spesso si meraviglia, stupisce o scandalizza del contrario. Vale anche per il suo rapporto con la natura. Oggi sentiamo in modo particolarmente vivo la questione ecologica, anche in virtù di un pericolo incombente. Ci sentiamo parte integrante dell’ambiente, abbiamo acquisito l’importanza di trovare un equilibrio con un habitat che non è solo nostro ma di ogni specie vivente. La natura non è più qualcosa di altro da noi, la responsabilità nei suoi confronti è la stessa che abbiamo verso l’umanità intera. E infatti temi come sostenibilità e ambiente ormai sono entrati stabilmente negli ambiti di ricerca degli artisti del presente, amplificando la coscienza del nostro secolo.
Ma proprio l’arte è una buona guida per scoprire in quanti modi diversi l’uomo negli ultimi mille anni ha interpretato la natura. Idealizzata, temuta, studiata, vissuta, persino ignorata – non necessariamente in sequenza, spesso gli atteggiamenti si sovrappongono e persistono – in un certo senso la natura non esiste mai in sé ma solo nello sguardo dell’animale uomo. Punti di vista che oggi sentiamo lontani e che proprio per questo sono uno stimolo ad approfondire il nostro.
In mezzo al branco di maiali a cui fa la guardia, il figliol prodigo alza lo sguardo verso il cielo terso di novembre. I suoi colleghi invece sono ancora in mezzo al bosco, dove fanno pascolare i loro suini in cerca di ghiande. La pagina che Les Très Riches Heures du duc de Berry dedicano al penultimo mese dell’anno, attraverso un racconto sacro e allegorico, mostrano una delle attività tradizionali della campagna autunnale nel Medioevo (e non solo). Sfondo a parte, la scena presenta tre livelli di profondità: il primo è il campo aperto, in piena luce; il secondo una sorta di breve area diaframma, la penombra del limitare della boscaglia; il terzo è il nero impenetrabile del fitto di un selva che più “oscura” non si può.
Per l’uomo medioevale la natura, in un certo senso, non esiste. Non se ne sente figlio, perché non è “madre” e neppure è “sacra”, concetti legato al mondo pagano. Città e natura sono due entità ben separate, ma la vita della prima dipende dalla seconda. Quanto si estende al di fuori delle mura del centro abitato o del castello è fonte tanto di sostentamento quanto di pericolo. Solo il lavoro dell’uomo, celebrato dal diffondersi del ciclo iconografico dei Mesi, sembra poterla nobilitare: sono la dimensione antropizzata e il suo valore d’uso a fornirne un “senso”. Ma la natura è generosa. Alla terra si affidano i semi perché producano frutto, i boschi offrono cibo, materiale per costruire, combustibile. Più però le aree si fanno remote rispetto all’esperienza diretta più si addensano i misteri e le creature fantastiche e demoniache.
Il paesaggio, come lo intendiamo oggi, non esiste, perché non esiste nemmeno la parola per dirlo. E se non può essere detto, nemmeno può essere visto.
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