Infinito, la dimensione del divino
Per gli antichi l’infinito era segno di imperfezione. Per il cristianesimo è qualità dell’Essere perfettissimo
Franco Cardini
Il concetto di infinito viene solitamente associato – nella sua difficoltà di venir non solo espresso in termini intelligibili, bensì anche concepito – a quello di eterno: l’infinito sarebbe, in termini spaziali, quel che l’eterno è in termini temporali. Eppure una certa asimmetria presiede a questo rapporto: noi possiamo difatti plausibilmente sostenere che l’eternità è “un tempo infinito” (per quanto sentiamo che ciò è errato, in quanto essa è piuttosto assenza di tempo), mentre non avrebbe senso dire che l’infinità/infinitezza (l’incerta oscillazione tra i due termini appare, essa stessa, eloquente) sia “uno spazio eterno”. Il fatto è che, nelle due categorie del tempo e dello spazio, la prima si presenta più onnicomprensiva della seconda: in termini esiodei, Chronos è figlio di Ouranos ma lo sovrasta. D’altronde, la categoria dell’infinità attribuita al tempo equivale, appunto, all’eternità. Resta comunque il fatto che l’infinito viene concepito in termini d’ineffabile estensione temporale.
Nel mondo dell’antica Ellade, e quindi anche in Roma, che a esso era per moltissimi versi debitrice, il concetto d’infinito era valutato soprattutto a livello matematico, pur non trovando però posto plausibile nelle teorie sia di Euclide sia di Anassimandro. Solo nei Paradossi di Zenone l’idea di infinito viene esaminata nei suoi aspetti problematici. A livello filosofico, il concetto manteneva un valore prevalentemente negativo: era difatti associato a qualcosa d’incompatibile con i termini di compiutezza e di perfezione. La matematica e la filosofia hanno continuato si può dire costantemente, sino a tempi recentissimi, a mantenere diffidenza se non addirittura antipatia nei confronti dell’infinito, proprio per la sua natura incalcolabile e incommensurabile. Più propriamente, il termine àpeiron, che appunto indica qualcosa “senza fine”, denotando la mancanza di forma e la refrattarietà alla determinazione, era sinonimo appunto d’imperfezione e d’incompiutezza. Per Aristotele, pertanto, infinite potevano essere la materia e la potenza, ma non la forma né la sostanza. Ne derivava una concezione dinamica: non potendosi dare un “Infinito sostanziale”, si poteva bensì ammettere un “infinito potenziale”. Tanto nei Metaphysica (XI,10) quanto nei Physica (III,5) l’infinitezza è proprietà del numero che può accrescersi all’infinito.