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Il problema delle tre Cine

Shenzen, Macao, Hong Kong: un triangolo percorso dalla vertigine della modernità, mondi abitati da una vita frenetica e da radici immutabili. Regime, capitalismo, taoismo si sovrappongono, in questo immenso Paese che sfugge per primo a se stesso

​Franco La Cecla
L’amico di Shenzen che Carlo conosce da quarantacinque anni, editore, gli ha appena detto: «Dovresti scrivere un libro sulla Cina di oggi, che serva a capire tra qualche anno quello che sta succedendo. Perché nessuno ci capisce, soprattutto noi, i cinesi, non capiamo, non ci capiamo. Come fa un popolo a sopportare cose che altri popoli non sopportano? Come mai i cinesi accettano condizioni di vita che ad altri parrebbero invivibili?».
Arrivando in città dall’aeroporto Carlo non riconosce nulla del posto in cui ha vissuto venti anni fa e che aveva allora dieci milioni di abitanti. Nata dal nulla qualche anno prima come sfida continentale a Hong Kong, oggi ne ha venti milioni. Una selva di grattacieli con poca identità, un paesaggio anonimo riscattato da qualche collina tropicale e salvato a stento da una vegetazione rigogliosa. Un posto diventato ricchissimo, il simbolo del boom cinese eppure nell’insieme triste. L’amico di Carlo ha lavorato duramente nell’editoria e poi ha fatto mille mestieri. Guadagnava l’equivalente di 300 euro al mese. E per questo si è visto assegnato un appartamento pubblico, che ha potuto poi comprare con una somma equivalente a 50mila euro. Oggi vale un milione e mezzo di euro. Appollaiato al 18° piano di un condominio tra i meno disumani e a poche fermate dal Civic Center, costruito da una delle cento archistar che qui hanno lavorato. Però quando, dopo una magnifica cena preparata dalla moglie nell’elegante appartamento tra lacche birmane e di Shangri-la, scendiamo a piano terra ci appare la domesticità cinese, silenziosa qui, ma fitta di gente che passeggia e fa le proprie attività quotidiane. È quello che appena fuori dal mio hotel kitsch ho già sperimentato. C’è una capacità di riappropriarsi degli spazi più squallidi che è propria dei cinesi, i quali riescono ad allestire mercati, cucinare ravioli e funghi e mangiare in qualunque angolo. Carlo è venuto  in Cina sessantaquattro volte. Ci ha scritto, pubblicato, tradotto, si è sposato qui, ha fatto la guida turistica, ha elaborato le sue ricerche su Lu Xun, sugli scacchi, che sono nati in Cina e della Cina raccontano moltissimo, sul taoismo, lavorando spalla a spalla con i grandi sinologi del Collège de France. E soprattutto restando sempre un indipendente, uno che preferiva il rapporto diretto a quello mediato dall’accademia. Il suo maestro Schipper gli diceva che un sinologo non deve viaggiare molto. E lui ovviamente disobbediva, imbarcandosi in avventure intellettuali e sentimentali. Vagando tra Kyoto, lo Yunnan, Chang Mei, Singapore. È stato, è uno dei clerici vagantes più efficaci mettendo in contatto persone, occasioni, imprese, girando documentari, traducendo i classici del taoismo. E soprattutto privilegiando la Cina su qualunque approccio eurocentrico, volendo ibridare l’Europa di cinesità e non viceversa.
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