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Il coraggio della parola

I poeti, forse più degli altri, sono coloro che riescono a dare una definizione positiva della pace

​Davide Rondoni

La guerra scompone, disarticola, crea decomposizione. L’arte invece compone, e per quanto confusamente, pur prendendo risorse da scomposte immaginazioni, da ferite e lacerazioni, tende a unire. Arte e guerra sono perciò diametralmente opposte. Il che non significa meccanica alternativa: dove c’è la guerra spesso fiorisce l’arte, e non di rado impeti di guerra sono accompagnati da azioni artistiche, in nuovi e antichi imperi. Ma ora, in un tempo dove matura un ripudio della guerra, se pur con troppe eccezioni, il binomio guerra e arte si pone in tensione dialettica nuova. L’arte oggi non può che essere per la pace. Le proporzioni della “inutile strage” a inizio Novecento, e gli effetti della bomba nucleare, hanno reso più attiva, nei popoli occidentali di cultura cristiana, una presa di coscienza forte contro la guerra. Per questo se si pronunciano a favore dei conflitti gli artisti lo fanno per servilismo o delirio estetizzante (così fu in parte in occasione della Prima guerra mondiale e credo anche oggi, a giudicare dallo strano entusiasmo o silenzio di molti). O perché preoccupati per la madrepatria. Questione complessa, questa seconda, al volger di un’epoca che ha svilito il concetto stesso di madrepatria, non necessariamente portando più libertà e pace. Poesia e guerra così convivono, ma la prima, componendo sempre, nega all’altra l’ultima parola.
Noi italiani lo sappiamo. Se qualcosa si conserva della Grande Guerra, e della sua ambigua sanguinante storia, si deve alle poesie di Ungaretti. Ma anche di un’altra guerra, quella portata con il terrorismo in Italia, abbiamo forse la più plastica espressione in una poesia. È di Mario Luzi, che ne scrisse alcune negli anni Settanta. Una la dedicò al ritrovamento del cadavere del presidente Aldo Moro. Nella poesia che presento, l’immagine delle “nere riserve” a cui gli uomini della violenza possono attingere allude a qualcosa che non si estingue come possibilità. Continuando a generare il “cupo dialetto”, una lingua disumana. Nella ballata del poeta inglese Wilfred Owen la stravolta paternità di un ufficiale dialoga con il padre di un povero soldato. Una poesia sulla pace, agognata, sognata è quella di Paul Éluard. I poeti sognano la pace perché è la migliore condizione per la vita, cosa che onorano con le loro parole, accese, dure, nuove, per sempre.
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