Il Settecento, secolo d'oro d'Italia
Per la vulgata, nel Seicento e Settecento lo Stivale avrebbe toccato il fondo. Furono invece anni ricchi di cambiamenti e di promesse (non sempre mantenute)
Franco Cardini
La seconda metà del Seicento e tutto il Settecento sono stati, com’è noto, due periodi tormentati ma splendidi nella storia europea: due secoli centrali. E la coscienza del Vecchio Continente è fiera di quel passato.
Lo stesso non sembra essersi verificato in Italia: dove anzi un’enorme massa di pregiudizi duri a morire – alcuni dei quali in tutto o in parte sostenuti anche da alcuni fra i nostri grandissimi, come lo stesso Alessandro Manzoni, nonché Francesco De Sanctis e Benedetto Croce – ha messo in circolazione e radicato l’immagine triste di un’Italia umiliata, arida, priva di originalità e di libertà, immersa in un conformismo bigotto e in una vuota retorica: l’Italia “barocca” – dove l’aggettivo è parte di una specie di damnatio memoriae –, considerata la terra delle “preponderanze straniere” e del “servaggio”, dove la “decadenza” del Paese s’intrecciava ad “altre decadenze”, il Paese del cieco fanatismo religioso e del feroce brigantaggio, delle repressioni implacabili e delle rivolte bestiali, il “popolo di morti” di lamartiniana memoria.
Quest’immagine caricaturale è certo il risultato di un collage di cose in parte vere: ma non rende giustizia alla verità. Al fine di recuperare un’immagine più realistica e serena di quel mondo e di quel tempo, cominciamo da un fatto primario nonché basilare. La lingua.
Nel suo classico studio L’italiano in Europa il grande filologo Gianfranco Folena tratta della diffusione fuori d’Italia di quella che sia pure nelle sue molte varianti dialettali era già la nostra lingua. Secondo la sua analisi, fino dal tardo Medioevo e dal primo Rinascimento vari erano stati i canali di diffusione di tale idioma, legati comunque piuttosto a fattori cittadini: se già a partire dal pieno Trecento – ad esempio nel Decameron del Boccaccio – s’ incontra il termine “italiani” per definire gli abitanti della penisola, le indicazioni regionali (“lombardi”, “toscani”, “veneti”...) restavano più comuni, attraverso varie forme di prevalenza. Ad esempio nel Mediterraneo occidentale e poi in rapporto alla conquista delle rotte atlantiche il genovese costituì a lungo – nell’ambito del lento formarsi di una “lingua franca” marinara – il tramite per imporre molti termini legati alla vita di mare, vista l’influenza dei navigatori liguri nel determinarsi dell’egemonia catalano-aragonese e poi spagnola. Analoga funzione venne svolta in area adriatico-ionico-egea dal veneziano. La cultura umanistico-rinascimentale impose da parte sua il toscano, nella variante soprattutto fiorentina – quella dei grandi modelli letterari trecenteschi –, come lingua dotta “di corte” diffusa in buona parte d’Europa.In età moderna furono soprattutto il teatro e l’opera a svolgere questo ruolo. Nel Settecento ormai, pur nel persistere di forti regionalismi che peraltro avrebbero resistito anche ben oltre l’unità politica del Paese, la lingua italiana subì un mutamento importante in rapporto anche e soprattutto al fenomeno europeo che fu detto del “Grand Tour”.
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