I passi di Dante sul sentiero delle Beatitudini
L’ascesa del Purgatorio nella Commedia è ritmata esattamente sulle Beatitudini: il percorso di purificazione del cuore è la condizione per accedere alla visione
Carlo Ossola
Anna Maria Chiavacci Leonardi, autrice - nei «Meridiani» Mondadori - del più ricco commento alla Commedia, ha evocato il nostro tema in un bell’articolo del 1984, Le beatitudini e la struttura poetica del Purgatorio, e poco rimane da aggiungere a quel commento. Essa osserva che le Beatitudini pronunciate nel Discorso della montagna si presentano come «il manifesto, se così si può dire, del mondo cristiano di fronte all’antico», per cui «sono la vera ossatura portante del secondo regno dantesco». Nicola Fosca, nel suo commento alla Commedia, aggiunge che «ogni volta che il pellegrino sta per lasciare una cornice, l’angelo guardiano della cornice intona una particolare “beatitudine”. Per la precisione, al passaggio di Dante risuonano sei Beatitudini evangeliche: non vengono infatti nominate né l’ottava, tradizionalmente considerata come implicita nelle precedenti (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II. 69.3), né la seconda («Beati i miti»)».
In effetti Dante segue alla lettera, nel latino biblico, il testo di Matteo (5, 3-12) con fedeltà, non tuttavia nello stesso ordine del testo evangelico: precedono infatti i «poveri in spirito»: «Noi volgendo ivi le nostre persone, / “Beati pauperes spiritu!” voci / cantaron sì, che nol diria sermone. / Ahi quanto son diverse quelle foci / da l’infernali! Ché quivi per canti / s’entra, e là giù per lamenti feroci» (Purg XII, 109-114). Sono proprio i poveri dunque che indicano nitidamente la differenza tra dannati e salvati: da una parte «lamenti feroci», dall’altra «canti» soavi.
Seguono poi i misericordiosi: «Poi giunti fummo a l’angel benedetto, / con lieta voce disse: “Intrate quinci / ad un scaleo vie men che li altri eretto”. / Noi montavam, già partiti di linci, / e “Beati misericordes!” fue / cantato retro, e “Godi tu che vinci!”» (Purg XV, 34-39). Non meno evidenza hanno, al centro della Commedia, i pacifici: «Così disse il mio duca, e io con lui / volgemmo i nostri passi ad una scala; / e tosto ch’io al primo grado fui, / senti’ mi presso quasi un muover d’ala / e ventarmi nel viso e dir: “Beati / pacifici, che son sanz’ira mala!”» (Purg XVII, 64-69). Non meno rilevati sono gli afflitti, evocati tra candide ali angeliche: «Con l’ali aperte, che parean di cigno, / volseci in su colui che sì parlonne / tra due pareti del duro macigno. / Mosse le penne poi e ventilonne, / “Qui lugent” affermando esser beati, / ch’avran di consolar l’anime donne» (Purg XIX, 46-51).
I giusti e coloro che cercano giustizia hanno un ruolo speciale tra gli exempla sottoposti al pellegrino: «Già era l’angel dietro a noi rimaso, / l’angel che n’avea vòlti al sesto giro, / avendomi dal viso un colpo raso; / e quei c’hanno a giustizia lor disiro / detto n’avea beati, e le sue voci / con “sitiunt”, sanz’altro, ciò forniro» (Purg XXII, 1-6); non solo perché con questo modello inizia il canto XXII, ma perché preannuncia il solenne elogio della Giustizia che verrà proclamato nel canto XVIII del Paradiso: «“DILIGITE IUSTITIAM”, primai / fur verbo e nome di tutto ’l dipinto; / “QUI IUDICATIS TERRAM”, fur sezzai» (Par XVIII, 91-93). Proprio per il rilievo che Dante conferisce alla giustizia, anche il versetto: «Beati, qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quoniam ipsorum est regnum caelorum» è riscritto da Dante, con veemente forza, nell’exemplum del protomartire Stefano: «Poi vidi genti accese in foco d’ira / con pietre un giovinetto ancider, forte / gridando a sé pur: “Martira, martira!”. / E lui vedea chinarsi, per la morte / che l’aggravava già, inver’ la terra, / ma de li occhi facea sempre al ciel porte, / orando a l’alto Sire, in tanta guerra, / che perdonasse a’ suoi persecutori, / con quello aspetto che pietà diserra» (Purg XV, 109–114). È certamente questo il fulcro delle Beatitudini per il Dante miles cristiano, e tuttavia più egli si avvicina alla condizione di innocenza primeva, quella sperimentata da Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, più s’avvede che la beatitudine originaria fu quella dei puri di cuore; e dunque Dante li pone al culmine del percorso di purificazione: «Fuor de la fiamma stava in su la riva, / e cantava “Beati mundo corde!” / in voce assai più che la nostra viva. / Poscia “Più non si va, se pria non morde, / anime sante, il foco: intrate in esso, / e al cantar di là non siate sorde”» (Purg XXVII, 7-12).
Occorre tuttavia non limitarci alle beatitudini evocate dai critici, semplicemente perché esse sono citate nel loro latino; se fossero le sole rappresentate, Dante effettivamente disgiungerebbe la novitas cristiana dall’eredità classica. Il poeta invece, fedele al suo progetto di considerare e giudicare l’umanità intera, così come pone Stazio tra i salvati (Purg XXI e seguenti), non meno illustra la beatitudine della mitezza proponendo quale modello, nell’exemplum raffigurato sui marmi della montagna, l’ateniese Pisistrato, per la sua temperata e mite benignità: «e dir: “Se tu se’ sire de la villa / del cui nome ne’ dèi fu tanta lite, / e onde ogni scienza disfavilla, / vendica te di quelle braccia ardite / ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto”. / E ‘l segnor mi parea, benigno e mite, / risponder lei con viso temperato: / “Che farem noi a chi mal ne disira, /se quei che ci ama è per noi condannato?”» (Purg XV, 97-105).
Se è tradizione riferirci, per le Beatitudini in Dante, al testo più ampio di Matteo, tale lettura è tuttavia insufficiente, poiché il poeta trae da Luca una beatitudine e un verbo che saranno quelli essenziali per il suo Paradiso. Potremmo in certo modo suggerire che Matteo fornisce le Beatitudini dell’incitamento, Luca le Beatitudini del compimento e della gloria. Egli afferma infatti: «Beati, qui nunc esuritis, quia saturabimini» (6, 21), e Dante farà di quei due verbi il fulcro stesso della plenitudine paradisiaca: «Tal era quivi la quarta famiglia / de l’alto Padre, che sempre la sazia, / mostrando come spira e come figlia. / E Bëatrice cominciò: «Ringrazia, / ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo / sensibil t’ha levato per sua grazia» (Par X, 49-54). Questo “essere saturati” dalla grazia di Dio è tuttavia non già una sazietà di ripienezza, ma una continua sete di meglio - e più ampiamente - contemplare tanto la bellezza umana, trasfigurata in Beatrice, che l’amore divino: «Mentre che piena di stupore e lieta / l’anima mia gustava di quel cibo / che, saziando di sé, di sé asseta, / […] / “Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”, / era la sua canzone, “al tuo fedele / che, per vederti, ha mossi passi tanti!”» (Purg XXXI, 127-135).
Ma come conciliare la beatitudine della “giustizia”, che è raggiunto equilibrio ed equità, con quella dell’essere costantemente “assetati” di altra grazia? La straordinaria forza del poema dantesco è tutta, occorre ribadire, in quella tensione; e tuttavia il poeta, con una lucidità teologica e semantica degna di san Tommaso, e anche più incisiva, ci rivela quel punto di pacificata plenitudine - che non vale solo per coloro che si purgano del vizio della gola - nel quale desiderio e grazia si raggiungono: «E senti’ dir: “Beati cui alluma / tanto di grazia, che l’amor del gusto / nel petto lor troppo disir non fuma, / esurïendo sempre quanto è giusto!”» (Purg XXIV, 151-154).
«Esurïendo sempre quanto è giusto!»: tale, in un apax folgorante, è il lascito dantesco che concilia in quel verso le Beatitudini del Figlio e la lezione mariana del Magnificat: «esurientes implevit bonis, / et divites dimisit inanes» (Luca 1,53).