Luoghi dell' Infinito > Guerra, in pagina vince la pietà

Guerra, in pagina vince la pietà

La guerra è un pilastro della letteratura del Novecento e contemporanea Dalle trincee della Marna all’Afghanistan, la violenza è sconfitta

​Alessandro Zaccuri

Quanto può durare l’eco di un colpo di pistola? Anche per un secolo, se non di più. Se si affina l’udito, sotto il rumore della cronaca degli ultimi mesi si riconosce il riverbero degli spari esplosi da Gavrilo Princip a Sarajevo il 28 giugno 1914. Fine della Belle Époque, inizio di un secolo che può essere considerato breve solo per convenzione, tanto i conflitti che ha alimentato continuano a incidere oltre la svolta del millennio. Di sicuro, anche in letteratura la consapevolezza della cesura segnata dalla Grande Guerra è immediata, dolorosa e duratura.
Più di quarant’anni dopo l’uccisione del­l’arciduca Francesco Ferdinando e della consorte Sofia, e con un altro sconquasso mondiale di mezzo, due grandi autori francesi tornano infatti a occuparsi dell’episodio. Uno è il non ancora esordiente Georges Perec, che nel 1957, di ritorno da un viaggio nei Balcani, scrive il suo primo romanzo, L’attentato di Sarajevo, destinato a rimanere inedito per molto tempo. L’altro è un poeta all’epoca già celebre e ammirato, Blaise Cendrars, che a Sarajevo dedica nel 1955 uno dei suoi radiodrammi o, meglio, “film senza immagini”. Dei due autori, il più accreditato è probabilmente Cendrars, e non perché la vicenda dell’allora ventisettenne Perec possa considerarsi al riparo dalle tragedie della guerra (ebreo, perse entrambi i genitori tra conflitto e persecuzione). Ma in trincea Cendrars c’era stato veramente e il suo La mano mozza (1946) rimane una delle testimonianze più sconvolgenti sulla carneficina con la quale si apre il Novecento.
Come si è spesso ripetuto, la Grande Guerra è anche la guerra degli scrittori, degli intellettuali e degli artisti. Appena si arriva al fronte, le precedenti convinzioni politiche sembrano perdere di importanza, le differenze tra interventisti e pacifisti si assottigliano, e il fango si rivela uguale per tutti, uguale per tutti è lo strazio dei proiettili e del filo spinato. Mentre il comandante Gabriele d’Annunzio vola da un teatro di combattimenti all’altro, tutto sorvolando con il suo stile prodigioso (il vero cimento, per lui, si porrà a guerra finita, con l’impresa di Fiume), là sotto, in modo non sempre glorioso, si consumano le vicende individuali di poeti come Clemente Rebora, che anche in seguito al trauma del Podgora si avvierà sulla strada della conversione e professione religiosa, e Giuseppe Ungaretti. Per molti aspetti, si potrebbe affermare che la letteratura del Novecento nasce proprio grazie a lui, nella fattispecie con la prima, leggendaria edizione di Il porto sepolto, apparsa a Udine nel 1916. Sono versi che il tempo non ha logorato, quelli in cui Ungaretti rievoca la notte trascorsa a fianco del cadavere di un «compagno / massacrato» («Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita») oppure contempla le macerie di un paese, San Martino del Carso, che da quel momento è diventato il simbolo stesso della distruzione.
[...]