Luoghi dell' Infinito > Guardare dentro la guerra

Guardare dentro la guerra

Antichi e moderni hanno cercato le parole per giustificare la violenza. Ma le domande sono più forti delle certezze

​Franco Cardini

Può piacere o no: ma la guerra – intesa, al di là dei numerosi valori metaforici che la parola ha assunto nel tempo, nel senso di contesa armata tra due gruppi umani tesa al conseguimento di un risultato al quale entrambi ambiscono e a proposito del quale qualunque intesa sia risultata impraticabile – è un’antichissima compagna del genere umano. E, al pari di altre sue “colleghe” tanto poco auspicabili quanto ardue o impossibili a evitarsi (malattie contagiose, crisi alimentari, catastrofi naturali: insomma, i “cavalieri dell’Apocalisse”), riempie il nostro mondo, le nostre preoccupazioni, il nostro immaginario molto più di quanto siamo disposti ad ammettere. Certo, nel “nostro Occidente” (continuiamo ancora a utilizzare quest’ambigua espressione) v’è al riguardo qualcosa di nuovo rispetto alle altre culture e al passato del genere umano. Stiamo sperimentando proprio in questi tempi – complice la coincidenza del presentarsi di un’ostinata pandemia e l’affacciarsi in Europa di un conflitto che potrebbe anche avvicinarsi ulteriormente ai nostri confini e coinvolgerci – il disagio di un pericolo che incombe e rispetto alla responsabilità del cui delinearsi non possiamo non dichiararci né estranei né innocenti.
Ma c’è di più. Il cristianesimo, religione di pace, ha generato la cristianità, nata sotto l’egida di un impero che, cristianizzandosi, aveva avvertito la necessità di presentare la propria fede come un culto trionfale: il Christus Sol, Christus Rex, Christus Dux. Ovviamente, la guerra per aver legittimo posto nel nuovo sistema socioreligioso doveva rispettare la sua vocazione pacifica: vi provvide Agostino, elaborando la sua teoria di iustum bellum, guerra “legittima” (non “giusta”, come erroneamente si traduce tale aggettivo), che variamente elaborata e corretta ha resistito alla secolarizzazione, si è innescata nel “diritto delle genti” e solo recentissimamente è stata rimessa in discussione. D’altronde, le due guerre mondiali hanno mostrato a sufficienza come un eventuale prossimo conflitto globale della stessa estensione e intensità metterebbe in forse la sopravvivenza del genere umano: il che ha avuto conseguenze sullo stesso impianto giuridico del problema. Fatta eccezione per il tragico conflitto nella ex Jugoslavia, negli ultimi tre quarti di secolo  la guerra fra nazioni non si è più affacciata ai confini del continente europeo, e pensavamo ormai di esserne per sempre immuni.
Non è stato così. Questa guerra che torna a bussare dopo molti decenni alle porte dell’Europa, noi la stiamo accogliendo – con qualche eccezione e molte manifestazioni di paura e di disagio – non già come un’estranea, una sconosciuta, bensì, se non come un’amica, quanto meno come una vecchia conoscenza; e scopriamo altresì che in fondo può anche atterrirci, ma non meravigliarci. Per molti decenni avevamo abituato noi stessi, i nostri figli e i nostri nipoti al “No War”, al pacifismo e alla non-violenza (che pure non sono la stessa cosa), alle Marce della Pace e alle bandiere arcobaleno. E così marciavamo compatti contro guerre lontane, dal momento che nessun nemico incombeva dal cielo, dalla terra o dal mare e nulla premeva alle nostre frontiere.
[...]